“Mi pare che Gilardi sia convinto di essere capace, in qualche modo, di prevedere e annunciare e raccontare quello che succederà, tanto che lo dice in tutti i cataloghi delle sue mostre: ‘I progetti sommari rappresentano una soluzione sommaria delle fondamentali esigenze dell'uomo nel prossimo futuro’. (...) La natura di Gilardi non è né igienica né confortevole. Non è un alibi ma è un rito. È una natura miserabile in perdita. Una natura di mele cadute, di zucche da orto di periferia quando i fiori felici dei piselli e dei fagioli, le zinnie e le dalie sono sfiorite e i frutti sono stati raccolti,(...) una natura in perdita. Il rito di Gilardi è come il rito nelle grotte di Lascaux: è il rito (...) per invocare coraggio davanti alla morte ricostruendo con le nostre povere mani l'avventura della sconfitta”. Così Ettore Sottsass apriva ai lettori di Domus una finestra sull’opera di Piero Gilardi, nel dicembre 1966 sul numero 445, presentando i suoi Tappeti-Natura in poliuretano.
Ma l’artista torinese, scomparso il 5 marzo ad 80 anni, da quel 1966 ha poi costruito una traiettoria totalmente opposta a un’idea di sconfitta preventiva, dedicandola anzi ad una azione incisiva e continua di sensibilizzazione della coscienza collettiva verso i danni inflitti all’ecosistema globale, e verso le possibilità attive di uscire da questa spirale autodistruttiva della sfera vivente: lo testimoniano i lavori di land art come tutta la ricerca e l’attività svolta dalla fondazione del Parco Arte Vivente a Torino.
E lo raccontava Gilardi stesso a Lea Vergine nel febbraio 1981, sul numero 614 di Domus, in un’intervista tra la retrospettiva e il dialogo critico.
[...] vivere l'arte non come qualcosa di imbalsamato, di parcellizzato nella dimensione estetica, ma come un qualcosa che può incidere nella realtà...
Il lavoro che cerco di fare oggi, Piero Gilardi
L.V. Il mercato dell'arte comincia a riproporre i tuoi tappeti di gommapiuma degli anni '60. C'è un rapporto tra quel tuo lavoro e quanto stai facendo oggi?
P.G. Sì. E sono contento di poter riprendere oggi questo discorso, perché quando sono uscito dal mondo dell'arte, nel '69, non mi son curato di spiegare il senso della scelta che avevo fatta. Nel mio lavoro di allora mi sembra ora di trovare le premesse del lavoro di oggi. Sintetizzando molto: il significato dei tappeti-natura era l'abbandonare la dimensione dell'estetico per entrare nella dimensione della realtà quotidiana, e il lavoro che cerco di fare oggi ha lo stesso significato...
L.V. Quel che è accaduto in questi 10 anni, le attività che hai svolto...
P.G. Ecco. Dal momento in cui, insieme ad un gruppo di artisti torinesi, si era arrivati all'intuizione che l'arte doveva entrare nella vita non più come metafora, il mio primo passo è stato quello di cessare la produzione di oggetti e iniziare un lavoro di relationships (allora si diceva così) cioè andare a trovare tutti gli artisti che lavoravano in quel senso... e allora i miei viaggi in California, negli Usa, in Svezia, in tutta l'Europa, alla ricerca di queste persone...
Si pensava che il partito, il movimento, fossero il fine, e abbiamo dimenticato che il fine era la liberazione...
L.V. E l'esperienza si concretò in quella che hai chiamato arte micro-emotiva.
P.G. Sì. Ma questa etichetta mi è poi sembrata stretta, un qualcosa di teorico, di legato a una situazione corporativa... Allora ho fatto un altro passo verso la vita, rompendo lo schematismo di quella formalizzazione teorica, e ho iniziato la militanza politica. Costruire nella realtà una dimensione che potesse accogliere l'arte... È durata 5 anni, fino al '74, quando ho cominciato a lavorare nel campo della cultura di base, cioè nei quartieri, nelle fabbriche in lotta, in un collettivo di compagni che, come me, avevano esperienze culturali. Per me, questo è stato uno sviluppo della militanza politica, questo scendere più nel concreto, nel portare la vita verso l'arte. Nello stesso tempo ho cominciato l'esperienza in campo psichiatrico, lavorando con degli psichiatrizzati, gestendo degli ateliers, partecipando a momenti di lotta, e trovando proprio nella pittura dei cosiddetti matti la radice di un atteggiamento artistico nuovo, cioè del vivere l'arte non come qualcosa di imbalsamato, di parcellizzato nella dimensione estetica, ma come un qualcosa che può incidere nella realtà...
L.V. In concreto, tu eri lì, a disposizione dei pazienti con il tuo bagaglio tecnico, di pittore...
P.G. Loro vivono il bisogno creativo come necessità. L'espressione per loro è l'unico modo per sentirsi e per mostrarsi vivi. Per me, è stato un ritornare a quello che è la spinta del bisogno creativo...
L.V. Oggi, le prospettive del tuo lavoro...
P.G. La situazione è difficile, oggi. Mi sembra che ormai la sconfitta del movimento di questi dieci anni sia chiara. Ma cogliendo nella sconfitta gli elementi critici utili per andare avanti...
L.V. Sconfitta. Ma è una battaglia persa o una guerra persa?
P.G. Una battaglia. C'è pessimismo, sconforto. Ma anche tanti piccoli momenti di creatività nuovi, veramente alternativi, e possono essere sviluppati. L'esperienza mia, e di tanta parte del movimento, ci ha dato degli strumenti per capire i problemi dello stare insieme, del rapportarsi collettivamente, per esempio, rispetto ai beni materiali, anche quelli che servono a far cultura... La mia prospettiva è continuare a lavorare in una realtà sociale aggregata. Nel contesto di una realtà urbana, in cui io continuerei ad avere il ruolo dell'animatore, si sviluppa un modo di esprimersi collettivo che è sempre legato al tentativo di trasformare la realtà. È una trasformazione che non può agire sulle grosse strutture, ma all'interno delle piccole aggregazioni, e sul linguaggio. Visto che abbiamo capito delle cose nuove sullo stare con gli altri, dobbiamo proprio riuscire a rifondare il linguaggio in base a questa nuova logica dei rapporti fra le persone.
Sintetizzando molto: il significato dei tappeti-natura era l'abbandonare la dimensione dell'estetico per entrare nella dimensione della realtà quotidiana, e il lavoro che cerco di fare oggi ha lo stesso significato...
L.V. Escludi una concomitanza di lavoro con altri artisti che hanno avuto le tue stesse esperienze?
P.G. Al contrario, sento molto il bisogno di confrontarmi con altri... Da un po' di tempo mi incontro con Pistoletto e cerchiamo di ricostruire il nostro lavoro, le esperienze della seconda metà degli anni '60. Io vorrei allargare questo dibattito, perché questo tipo di confronto ce l'ho anche con il compagno operaio che per 10 anni è stato avanguardia di lotta in fabbrica e che oggi rivede la propria condizione esistenziale, e quindi anche il proprio modo di fare politica, e ce l'ho con ogni persona che, dopo aver vissuto il tentativo di trasformare la realtà, oggi riflette in senso anche autocritico... Si pensava che il partito, il movimento, fossero il fine, e abbiamo dimenticato che il fine era la liberazione... Il problema mi pare sia quello di non più andare a ricercare, attraverso strategie, delle finalità con cui identificarsi... recuperare la nostra capacità di soggetti che vivono dialetticamente il divenire della realtà... ma una volta che la si è ritrovata ricercare anzitutto la comunicazione – e questo è un po' quella rifondazione del linguaggio che dicevo...