Fiumi d’inchiostro sono stati ormai versati da che Robert Venturi, vincitore del prestigioso premio Pritzker e certamente una delle maggiori figure dell’architettura del XX secolo, un paio di settimane fa, è scomparso alla venerabile età di 93 anni. Dopo James Stirling (1926-1992), Charles Moore (1925-1993), Aldo Rossi (1931-1997), Hans Hollein (1934-2014) e Michael Graves (1934-2015) un’altra importante figura di spicco dell’architettura postmoderna se ne è andata, mentre il recente ritorno d’interesse per qualunque cosa sappia vagamente di postmoderno, specialmente tra le giovani generazioni, amplificherà di certo la popolarità postuma dell’architetto.
Venturi, uomo d’avanguardia, sognatore e agitatore, da sempre innamorato dell’Italia, ha cambiato per sempre il corso della storia dell’architettura. Ha insegnato a generazioni di architetti a guardare oltre l’ortodossia prescritta dal Movimento Moderno e a imparare dalla strada, dall’intrinseca complessità del mondo “ordinario”, dalla cultura alta di Roma quanto dalla cultura popolare di Las Vegas. Ma, di preciso, chi si ricorda di Bob? Una ricerca negli archivi di Domus – oggi interamente disponibili online – permette un bel viaggio nella carriera dell’architetto: dalle parole e dagli edifici alle mostre, ai progetti d’arredamento e oltre.
Una delle prime occorrenze del nome di Venturi sulle pagine di Domus risale al 1967, quando la rivista pubblicò una recensione di Complexity and Contradiction in Architecture [trad. it. Complessità e contraddizioni nell'architettura, Bari, Dedalo, 1977], il libro che Venturi aveva pubblicato l’anno prima con il Museum of Modern Art e con la Graham Foundation for Advanced Studies in the Fine Arts. La recensione (Domus 453, p. 49), firmata da Joseph Rykwert, non occupa più di una colonna della rivista (un quarto di pagina) e non manca di punte critiche: “Il libro del professor Venturi è stato forse anticipato con qualche pubblicità di troppo”, scrive Rykwert. Il libro, definito “ironico, affascinante e davvero abbastanza autodenigratorio” era secondo Rykwert, profondamente radicato nel sistema Beaux-Arts pur senza mostrarlo esplicitamente. Più incline alla lode verso la fine del testo Rykwert confessa di stare dalla parte di Venturi – “anche i funzionalisti ci hanno abbandonati” – prima di concludere: “Non sono sicuro di essere pronto a lanciare tre hurrah per Venturi, ma se li volesse potrei dargliene due e mezzo”.
Venturi, pur avendo pubblicato due tra i libri più fecondi del tardo XX secolo (Complessità e contraddizioni e Imparare da Las Vegas, con Denise Scott Brown e Steven Izenour) ha anche espresso le sue idee sulla banalità e l’ordinarietà in forme espositive: la più celebre è la mostra Signs of Life: Symbols in the American City, allestita alla Smithsonian Institution di Washington (febbraio - ottobre 1976), recensita nel numero di dicembre 1976 con una doppia pagina riccamente illustrata e colorata (Domus 565, pp. 46-47).
L’eredità culturale di Robert Venturi si tramanderà tanto grazie alla sua scrittura acuta e analitica quanto grazie ai suoi originali edifici. E tuttavia, come ogni buon genio postmoderno, Venturi non limitò la sua creatività a libri ed edifici. Nel 1981, accanto a Michael Graves, Hans Hollein, Arata Isozaki, Charles Jencks, Richard Meier, Alessandro Mendini, Paolo Portoghesi, Aldo Rossi, Stanley Tigerman, Oscar Tusquets, Kazumasa Yamashita, progettò per l’imprenditore Carlo Alessi nuove linee di oggetti sperimentali d’acciaio da produrre in tiratura limitata (Domus 623, p. 45). Un’intera pagina della rivista è dedicata agli schizzi preparatori e a una foto della teiera e della caffettiera di Venturi (Domus 618, pp. 2-3). E solo qualche anno dopo, nel 1984, Venturi realizzò anche una collezione di sedie per Knoll. Le sedie, di legno multistrato curvato e verniciato, avevano schienali le cui forme alludevano a vari elementi tettonici ridotti a due dimensioni (Domus 653, pp. 74-75).
Il più celebre edificio di Venturi è la casa progettata per la madre nel 1964. Ma nell’arco della sua feconda carriera l’architetto realizzò una vasta gamma di progetti, da abitazioni familiari a residenze per anziani, caserme dei vigili del fuoco, musei d’arte, biblioteche, laboratori di ricerca e perfino una cappella. E su Domus compaiono parecchi dei progetti costruiti di Venturi. Nel 1983 Domus si occupò dell’ampliamento del Butler College di Princeton realizzato da Venturi con la Gordon Wu Hall (Domus 645, pp. 18-23), considerando questo progetto “l’occasione di individuare i principi teorici e le scelte linguistiche che nel 1966, in Complessità e contraddizioni, sollevarono straordinarie domande di cui oggi non si discute più”. Nel 1987 Domus dedicò sette pagine all’ampliamento della National Gallery in Trafalgar Square (Domus 684, pp. 25-31) e, un anno dopo, nel 1988, la rivista si occupò del progetto del museo di Seattle (Domus 699, pp. 36-40).
Anche se la memoria di Venturi è destinata a durare nel tempo, alcuni dei suoi edifici sono già in pericolo e richiedono cure di conservazione. Solo qualche giorno prima della morte di Venturi Manuel Orazi pubblicava, sull’edizione web di Domus, un articolo intitolato Ha senso demolire il Postmodern solo perché è “fuori moda”?. Nell’articolo Orazi ricorda che, dopo la Lieb House del 1969 ora tocca alla Abrams House (Pittsburgh 1979) e al San Diego Museum of Contemporary Art (terminato nel 1996) affrontare il rischio di una parziale o completa demolizione.
Domus, specialmente con la direzione di Alessandro Mendini (1979-1985), è stata un veicolo importante della diffusione del design e dell’architettura postmoderni. Roberti Venturi, talvolta considerato il padrino di questo movimento, occupava una posizione di rilievo sulle pagine della rivista. Attraverso l’archivio di Domus certamente la sua memoria resterà ben viva nelle generazioni a venire.