Impossibile essere preparati alla prima visita all’ufficio di Massimo Vignelli nella West Side di Manhattan.
Al 475 della Tenth Avenue c’è un solitario palazzo bianco che, dall’alto dei suoi quattordici piani, domina un circondario fatto di parcheggi, garage, piazzole della metropolitana e lotti ancora inutilizzati. La visita alla Vignelli Associates, che occupava l’attico di quell’edificio, cominciava di solito con la strana sensazione di trovarsi in una parte di New York curiosamente desolata: era forse per questo che, salendo in ascensore, ci si sentiva rassicurati dai nomi che apparivano ad alcune fermate lungo il tragitto – Gwathmey Siegel & Associati al terzo piano, Richard Meier al sesto.
Al dischiudersi delle porte, capitava di intravedere plastici architettonici protetti da bacheche in vetro, immacolati disegni sobriamente incorniciati: veniva da chiedersi se un luogo simile potesse realmente essere una mecca del design. Ma l’ultima fermata, al quattordicesimo piano, era tutt’altra cosa. Porte bianche dalle cornici massicce si spalancavano per dare accesso a una reception senza plastici sotto vetro, né disegni alle pareti. Al loro posto, si stendeva un pavimento grigio dall’inamovibile uniformità, circondato da pareti risolutamente bianche.
Arrivati a questo punto, numerosi potenziali clienti si rendevano conto che forse la Vignelli Associates non faceva al caso loro e, di conseguenza, rendevano la loro visita quanto più breve la cortesia consentisse.
E ci furono giorni in cui questo sembrava possibile, giorni in cui si poteva volare a New York con American Airlines, trovare le indicazioni per la metropolitana, fare shopping da Bloomingdale’s, cenare da Palio, e persino pregare nella chiesa di Saint Peter: il tutto senza perdere di vista un logo, un sistema di segnaletica, una borsa per lo shopping, un servizio da tavola o un organo a canne disegnati da Vignelli.
Con la moglie Lella, alcuni collaboratori di lungo corso come David Law e Rebecca Rose, e un sorprendentemente esiguo, sempre mutevole gruppo di designer, internisti e accoliti, Massimo riusciva a dar vita a una produzione che avrebbe fatto arrossire di vergogna studi dieci volte più grandi.
Quando finalmente i pezzi si univano, nessuno era così genuinamente contento quanto lui. E c’è forse un sistema di vendita più efficace dell’entusiasmo genuino? È proprio questa passione ciò che molti tra i suoi critici hanno trascurato, quando hanno voluto accomunarlo ad altri designer dediti a una sterile forma di modernismo. Massimo, invece, si è sempre battuto per funzionalismo e chiarezza. Il razionalismo modernista richiede un autocontrollo assoluto, e giunge a idealizzare un certo tipo di negazione della personalità.
I tratti distintivi di Massimo (le espressionistiche fasce nere nella grafica, i surreali contrasti di scala in architettura, l’inevitabile intrusione di sensualità nel design del prodotto) erano al contrario interamente intuitivi, gesti quasi auto indulgenti, cui gli era impossibile resistere, perché erano naturali come respirare.
Più avanti nella carriera, Massimo aveva cominciato a disegnare abiti che qualcuno un giorno affermò lo facevano sembrare “un sacerdote marxista a un pigiama party”. Ho ripetuto la battuta per anni fino a quando ho capito quanto fosse una perfetta descrizione della sua singolare combinazione di rigore dottrinale, fervore religioso, e gioia.
Alla fine dell’anno scorso il contratto dello spazio al 475 Tenth Avenue è terminato, e l’astronomico aumento dell’affitto si è dimostrato impossibile da fronteggiare per Massimo e Lella, che hanno deciso di chiudere l’ufficio e trasferire lo studio a casa propria. Nell’ottobre scorso sono stato convocato per ritirare alcune cose che avevo dimenticato quando, dieci anni prima, avevo lasciato la Vignelli Associates. Entrare in quell’ufficio è stato come tornare a casa.