L’Italia è uno straordinario e complesso ecosistema caratterizzato dall'alternarsi di una varietà di ampie zone pianeggianti, aree urbane estese, valli e montagne, città, paesi e borghi. In questa dimensione unica ci sono luoghi straordinari e fragili che reclamano cura. Le questioni più urgenti e complesse da affrontare sono il depopolamento e gli effetti del cambiamento climatico. Uno dei casi più emblematici è Civita di Bagnoregio.
Si tratta di un piccolo borgo in provincia di Viterbo, uno dei più straordinari della Tuscia laziale, nota nel mondo come la città che muore per la sua particolare fragilità ambientale. Isolata su uno zoccolo di tufo e collegata da un ponte al resto del territorio, è un insediamento di pochi abitanti che affonda le sue origini nella civiltà etrusca. Duemila anni di storia segnati da numerosi crolli, registrati nel corso dei secoli che stanno facendo, lentamente e inesorabilmente, sprofondare questo piccolo insediamento urbano.
È proprio questo senso di precarietà, di fragilità a rendere unico questo luogo e ad aver generato l’interesse dell’architetto e urbanista Giovanni Attili che ha curato Civita. Senza aggettivi e altre specificazioni un volume curato da Attili e pubblicato da Quodlibet con una preziosa prefazione di Giorgio Agamben. È un’approfondita ricerca sviluppata in tre parti, attorno al borgo.
L’autore proietta il suo sguardo e la sua sensibilità su un luogo unico, “un cucuzzolo di tufo sospeso sul vuoto”. Nel tempo, la fragilità territoriale di Civita ha dato vita a un patto tra gli abitanti e la terra su cui insiste il borgo. Un’alleanza profonda basata sulla consapevolezza e la cura di un ecosistema urbano particolare. Attili avverte subito i suoi lettori dell’importanza di questa relazione sottesa alla vita del borgo, che svetta fiero in cima alla sua rupe, e che sarebbe oggi solo un cumulo di detriti in assenza di una comunità operosa capace di costruire e preservare il proprio spazio vitale.
Si apre con questa premessa, un viaggio di scoperta e denuncia, quasi un’inchiesta composta da interviste, immagini, ricerche d’archivio alternate a pagine che prendono la forma di un romanzo–saggio con un deciso superamento del confine fra fiction e non–fiction.
L’autore utilizza questa strategia archeologica, come sottolineato da Giorgio Agamben nell’introduzione, per una più accurata definizione della realtà e della sua percezione conducendo chi legge oltre gli schematismi accademici e i generi. Le tavole illustrate da Francesco Rita e progettate dallo stesso Attili sembrano essere un ulteriore elemento di indagine della complessità che il piccolo borgo fragile in provincia di Viterbo pone all’autore.
Giovanni Attili è docente di Urbanistica alla Sapienza di Roma dove insegna Sviluppo sostenibile e Analisi dei sistemi urbani e territoriali ed è quindi abituato, nella sua attività di ricerca e educativa, ad avere uno sguardo tentacolare su fenomeni complessi come il moderno ruolo dell’urbanista richiede. Così come i pochi, agguerriti abitanti di Civita anche l’autore è alla ricerca di sempre nuovi modi di re-inventarsi e di rappresentare non più la realtà in sé, quanto l’espressione di una esperienza di realtà.
È proprio la peculiare esperienza urbana di Civita, quasi un archetipo delle rapide trasformazioni urbane contemporanee a farsi caso studio di fenomeni complessi come la relazione con gli elementi ambientali che l’autore definisce “terra madre e matrigna”, “terra d’adozione” e “terra di spettacolo”. Sono queste le tre sezioni del volume che tracciano altrettante macro aree d’indagine attorno alla resilienza degli abitanti, al ruolo dello studio e della progettazione con le seminali ricerche di Astra Zarina e ai disastri recenti del consumo turistico.
Civita diviene, dunque, prototipo di un evidente decadimento dell’abitare contemporaneo sempre più votato all’estrazione di valore immediato senza alcuna prospettiva di cura delle specificità ambientali e comunitarie. Eppure la densità, la stratificazione di esperienze e resilienze di Civita sembrano mostrarci come l’intera Italia sia un mosaico di una geografia policentrica composta da tanti peculiari tasselli umani e urbani che richiedono nuove attitudini e sensibilità per costruire mappe e traiettorie di nuove alleanze sostenibili che l’industria turistica consuma tanto quanto il cemento.
A fronte di dieci abitanti residenti, Civita ha visto nel 2019 un milione di turisti, affascinati dalla sua decadenza, pagare un biglietto d’ingresso per vivere l’esperienza della sua morte lenta e inesorabile. L’autore sembra, comunque, disegnare un percorso di progettualità concreta che guarda proprio alla resilienza di coloro che vi abitano come i protagonisti di un nuovo modo di abitare il borgo.
“La storia di Civita di Bagnoregio pulsa nel movimento inesorabile del divenire e della metamorfosi”. È nell’avvertire la fine di questo territorio argilloso e instabile che il borgo può ritrovare ogni volta un nuovo respiro, una nuova capacità di abitare la sua straordinarietà. L’overtourism è come una malattia che ha espulso la vita e la destrezza dei suoi abitanti di rigenerare e abitare fuori dall’ordinario.
La storia millenaria di questo borgo insegna che una vita saldamente ancorata alla terra, in ascolto e condivisione con i fattori ambientali e geografici può aiutare a disegnare il suo futuro. Occorre che anche gli amministratori non solo locali sentano come il borgo laziale sia uno dei tanti esempi di quel bisogno di politiche di connessione tra territori capaci di contrastare il depopolamento e gli effetti dei sempre più evidenti cambiamenti climatici.
Il volume di Giovanni Attili ci insegna di come sia necessario e urgente un radicale cambio di visione nella direzione di nuove alleanze tra abitanti e territori fondate sulla valorizzazione delle interdipendenze e il riconoscimento delle differenze che il consumo turistico tende ad appiattire con il suo abbraccio mortale.