Una storia mobile, quella tra i giovani e il mondo rurale, almeno a partire dal secondo Dopoguerra. Un fitto intreccio di biografie segnate da massicci spostamenti e crescenti flussi migratori dalle campagne alle città. Dalle aree interne della Penisola ai suoi poli già metropolitani, all’esordio del miracolo economico degli anni ’50; dalla terra delle piccole proprietà frammentarie o dei residui atavici latifondisti del Mezzogiorno alle fabbriche del triangolo industriale del Nord-Ovest, trainante, per accelerazione, la ricostruzione e lo sviluppo economico del Paese. Dalle unità poderali, presidiate dalle famiglie allargate in secoli di pratiche mezzadrili, al tessuto vivo dei distretti industriali di piccola e media impresa nella Terza Italia centrale e nord-orientale, rossa o bianca che fosse, per ideologia d’aggregazione politica. Ma anche un dinamismo di tipo temporale, costellato da passaggi asincronici tra passato e futuro, nella misura in cui il viaggio di sola andata dal campo contadino alla catena di montaggio o all’ufficio impiegatizio costituiva un vero e proprio balzo nel tempo: come cantava Luigi Tenco nel 1967, il tragitto centrifugo lungo l’Italia a doppia velocità significava “saltare cent’anni in un giorno solo”.
La cifra della mobilità nella relazione tra le generazioni più giovani e il sistema socio-economico agricolo si è conservata anche all’esordio del nuovo millennio, mutando però parzialmente di segno: tra gli epigoni dell’epopea della Grande Fuga dalle campagne, già sul finire del secolo breve iniziano a distinguersi le prime rade tracce di spostamenti in direzione inversa, e a moltiplicarsi, via via, i casi di contro-narrazione, all’insegna del ritorno alla terra: o per scelta di vita deliberata, o per la necessità imposta da un mercato del lavoro post-industriale sempre più asfittico o impaludato nell’elefantiasi di un terziario ormai saturo, rispetto alla domanda di un “posto fisso”.
Ai rientri al campo in senso stretto, magari ripercorrendo a ritroso i passi della generazione genitoriale precedente, che dalle piccole aziende contadine domestiche era andata via, si sommano gli arrivi inediti di giovani-adulti privi di una memoria familiare da ri-ancorare alla terra, spesso in transito da altre esperienze formative e professionali non più soddisfacenti né per efficienza economica né per realizzazione vocazionale (Cersosimo, 2012). E contiene in sé l’innesco del cambiamento anche la stasi apparente di molti di coloro che decidono, sin dal primo accesso alla vita adulta, di non andare via dai piccoli centri rurali e di declinare la propria condizione di forza-lavoro attiva nel settore primario, investendo energie e capitale umano in iniziative imprenditoriali autonome o cooperative: l’etica della “restanza” (Teti, 2011) coincide di frequente con l’impegno nel recupero della produttività contadina, nella rigenerazione del paesaggio naturale e antropico locale, nel presidio resistenziale della specificità e diversità dei territori di fronte alla standardizzazione estrattiva della produzione agricola imposta dai grandi imperi agroalimentari dominanti su scala globale.
Tutt’altro che retaggio di un modello socio-economico arcaico, destinato a preservare narrazioni folkloriche cristallizzate nel tempo e ad alimentare una sorta di mitologia comunitaria bucolica, i “nuovi contadini” descritti dal ruralista olandese van der Ploeg (2008) sono piuttosto i protagonisti di un’autentica rinascita delle campagne, in direzione ostinata e contraria rispetto ai processi di erosione socio-demografica che le hanno connotate negli ultimi decenni. Una quota rilevante è costituita da giovani: con oltre 55mila under 35 alla conduzione di imprese agricole e allevamenti, l’Italia è attualmente il primo Paese europeo per numero di aziende condotte da giovani, anche in ragione della ricerca green nei consumi e nel lavoro accelerata da quest’anno di pandemia. Secondo una recente rilevazione Coldiretti, su dati Infocamere aggiornati al Settembre 2020, la crisi innescata dall’emergenza Covid ha favorito un incremento di ben il 14% del numero di giovani imprenditori in agricoltura, rispetto a cinque anni fa, in controtendenza rispetto agli altri settori, dall’industria al commercio.
La corsa alla terra degli under 35 è tale che oggi in Italia il 10% delle imprese condotte da giovani svolgono attività agricole o d’allevamento, un dato rilevante anche rispetto alla fornitura di alimenti sani e di qualità in un momento tragico per l’economia e l’occupazione. “La capacità di innovazione e di crescita multifunzionale porta le aziende agricole dei giovani ad avere una superficie superiore di oltre il 54 per cento alla media, un fatturato più elevato del 75 per cento della media e il 50 per cento di occupati per azienda in più. E se tra i giovani imprenditori agricoli c’è chi ha scelto di raccogliere il testimone dai genitori, la vera novità rispetto al passato sono gli under 35 arrivati da altri settori o da diverse esperienze familiari che hanno deciso di scommettere sulla campagna con estro, passione, innovazione e professionalità, i cosiddetti agricoltori di prima generazione. Tra questi, ben la metà è laureata, il 57% ha fatto innovazione, ma soprattutto il 74% è orgoglioso del lavoro fatto e il 78% è più contento di prima” (Coldiretti, 2021).
Al netto dei numeri in crescita, questa quota di conduttori di più recente ingresso nel comparto, per ragioni anagrafiche, si fa tendenzialmente portatrice di una robusta postura imprenditoriale di tipo multifunzionale, orientata strategicamente a diversificare la produzione agricola per combinarla con attività complementari messe a valore (dall’accoglienza agrituristica ai corsi formativi e didattici in azienda) e con la generazione parallela di servizi non necessariamente “commodificabili”, ma assumibili quali esternalità positive di pubblica utilità (dalla cura dell’ambiente al recupero della biodiversità insita nei territori).
Il flusso narrativo che negli ultimi anni sta provando a dare voce a questa nuova ribalta delle campagne, dopo decenni di bollettini sconsolanti ancorati alla visione fatalistica di retrovie irrimediabilmente perdute ad ogni processo di sviluppo socioeconomico, si alimenta di un fermento di casi esemplari apparentemente disparati, ma nel complesso capaci di evocare tendenze innovative in atto tanto rispetto alla selezione dei prodotti (re)introdotti sul mercato, quanto rispetto ai processi produttivi, alle modalità organizzative del lavoro aziendale, alla configurazione reticolare dei canali commerciali. Un complesso di strategie volto a consolidare vantaggi comparati improntati alla qualità delle produzioni, per accedere e presidiare nicchie di mercato alternative alla standardizzazione agro-alimentare di massa, giocando in leghe diverse, laddove la competizione sul prezzo sarebbe altrimenti persa in partenza.
L’assortimento delle colture affianca al recupero di sementi e varietà tradizionali (come la cultivar di grano duro Senatore Cappelli, perduto nei meandri del XX secolo) l’introduzione a fini alimentari e terapeutici di vegetali relegati a lungo in settori avulsi o dalla nomea controversa come la canapa, utilizzata per esempio in ambito medico o ricreativo. Analogamente, non dovendo competere sui grandi numeri le pratiche zootecniche tendono ad affrancarsi dalla pressione della stabularità o della batteria, per tutelare il nesso diretto e documentato tra benessere degli animali allevati a terra e salubrità o pregio organolettico del latte e delle carni. Oppure, scommettono su pratiche meno consuete, come nel caso dell’allevamento biologico delle lumache, anche a fini di una produzione cosmetica ricavata dalla bava sempre più ricercata nelle fasce medio-alte del mercato della bellezza.
Si differenziano anche i confini tra le attività messe a valore, dove la coltivazione si intreccia indissolubilmente alla proposta di esperienze di full-immersion in azienda: dalle sessioni di educazione al gusto organizzate per gli studenti delle scuole disseminate sul territorio, o per soddisfare la curiosità sulle varietà dei formaggi o le sfumature di sapore dei vini dei consumatori più avvertiti. E ancora l’offerta di leisure sostenibile in strutture agrituristiche rispettose dei canoni costruttivi originari (dalle cascine ai fienili restaurati) e totalmente messe a norma in termini di riduzione dell’impatto energetico, da ricorso sistemico al fotovoltaico allo sfruttamento delle biomasse.
E si riconfigura l’orizzonte di senso connesso alla vocazione stessa alla vita rurale, specialmente se meditatamente di ritorno. Ne emerge una complessiva sensibilità ambientale orientata a uno sfruttamento meno intensivo della terra, a un uso più efficiente delle risorse idriche, alla drastica riduzione di fitofarmaci e diserbanti, all’introduzione di tecniche agronomiche spesso apprese in corsi universitari d’eccellenza, per declinare su scala locale buone pratiche attinte da esperienze validate dall’altra parte del mondo. E all’altro capo della catena del valore, il rapporto con gli acquirenti finali tende a liberarsi dalle pastoie e dai costi di transazione imposti da plurime intermediazioni, da una parte accorciando il più possibile le filiere capillarmente distribuite sul territorio, fin dentro le porte delle città nei mercati contadini di piazza, o nelle esperienze cooperative di vendita a chilometro zero in appositi magazzini riconvertiti ad empori solidali; dall’altra, sfruttando le reti virtuali dell’e-commerce diretto, dove il viaggio dei prodotti d’eccellenza dal campo della piccola azienda familiare fino alle tavole dei ristoranti gourmet d’oltreoceano non è più un vezzo elitario.
In questo viaggio di riscoperta e ritorno al centro della terra, i giovani contadini rivestono il ruolo di connettori su scale differenti: anzitutto, sul piano micro-biografico, costituiscono l’anello di congiunzione tra pratiche organizzative transitate lungo le catene generazionali (Cois, 2015; 2020), se è vero che ancora oggi in Italia l’agricoltura contadina è in massima parte a conduzione familiare (oltre il 98% del totale delle aziende, secondo le rilevazioni Eurostat), a livello meso-territoriale, essi si configurano come punti nodali di filiere agricole e agro-alimentari di qualità, capaci di intercettare, all’altro capo, bisogni di consumo di prodotti tipici, sani ed equi, come nervature reticolari di una forma specifica di mercato a elevata sostenibilità ambientale e sociale, sufficientemente competitiva alla scala di prossimità da tentare di reggere il passo rispetto alla grande distribuzione organizzata, anche tramite pratiche di incontro diretto tra domanda e offerta, rese più accessibili, in molti casi, dalla collocazione delle aziende alle porte delle conglomerazioni metropolitane (esemplare è il caso dei gruppi di acquisto solidale, che attraversano le obsolete dicotomie tra città e campagna; Counihan, 2020).
Infine, nell’attuale macro-scenario del tramonto dell’Antropocene, ai giovani contadini è affidato il mandato di superare i dogmi della dottrina della Modernizzazione, che per decenni ha interpretato meccanicamente la transizione dalla tradizione alla modernità come un progressivo e unilineare passaggio nazionale dal settore produttivo primario a quello secondario e terziario avanzato, a scapito di investimenti lungimiranti nel comparto agricolo: la sfida da raccogliere è piuttosto quella di sincronizzare le basi fondative del tessuto agrario del Paese – dove le aree rurali rappresentano oltre il 90% della superficie territoriale e contribuiscono alla formazione del valore aggiunto nazionale nella misura del 50% – lungo direttrici di innovazione tecnologica, infrastrutturale, culturale.
Coltivando idee originali, mettendole a frutto tramite strategie imprenditoriali tanto cooperative sul piano locale quanto competitive su quello globale, si attinge a programmi di promozione e supporto di differente impronta. Anzitutto europea, come nel caso del programma comunitario sperimentale LEADER (Liaison Entre Actions de Développement de l’Économie Rurale), finalizzato a promuovere uno sviluppo integrato delle aree rurali attraverso l’introduzione, su piccola scala e con sostegni finanziari relativamente limitati, di azioni innovative, ideate e implementate da partenariati pubblico-privati, i Gruppi di Azione Locale (GAL). O di livello nazionale, come nel caso della SNAI (Strategia Nazionale per le aree interne), promossa a partire dal 2013 dal Ministero della Coesione Territoriale e dai Ministeri responsabili per il coordinamento dei fondi comunitari e per i servizi essenziali, d’intesa con le Regioni e in cooperazione con ANCI e UPI, che si è declinata attraverso la realizzazione di progetti di sviluppo localizzati ad hoc in aree specifiche, attentamente selezionate e monitorate, in tutte le regioni italiane. O, infine, di scala regionale, tra cui spicca l’esempio delle Banche delle Terre (progetto “SIBaTer”), promosso dall’ANCI, che mira a censire le terre abbandonate o incolte per metterle a disposizione di giovani tra i 18 e i 40 anni perché, con le misure di sostegno per l’imprenditoria agricola in generale, e giovanile in particolare, possano avviarvi la propria attività.
E restituendo così, al ragazzo disorientato che “non sapeva niente in un mondo che sa tutto”, in fuga tra i versi di Tenco, una ragione per tornare. O per restare.
Le foto di Valentina Capitanio ritraggono Mecannabis, un’azienda agricola florovivaistica italiana con sede in provincia di Monza Brianza. Fondata nel 2017 grazie all’intuito di quattro soci – Marco, Erica, Carmelo, Davide e successivamente Federico –, si è specializzata nella produzione di Cannabis Sativa Linnaeus proveniente da sementi certificate, nel pieno rispetto di quanto stabilito dalla legge n. 242/2016. Oggi Mecannabis è in piena espansione con più 30 persone tra giovani dipendenti e collaboratori, diverse aziende partner con cui condivide la filosofia del rispetto della natura e dell’alta qualità del prodotto e con una superficie produttiva totale di oltre 50,000 mq divisa in siti produttivi indoor, greenhouse e outdoor.