Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1064, gennaio 2022.
La nostra vita, individuale e collettiva, è costantemente caratterizzata dalla categoria dell’attesa, un fatto non solo mentale, ma anche fisico, legato cioè a luoghi veri e propri. Le strutture dell’attesa fanno parte del nostro territorio abitativo e molte attività sono organizzate attraverso di esse.
Scaricate da qualsiasi intenzionalità progettuale, sono quasi sempre spazi non definiti, lasciati a sé stessi, scarichi di progettualità, ma carichi di quella tensione urbana che fa sì che ogni luogo, vuoto o abbandonato, rappresenti, per chi ci vive intorno, un’opportunità, in relazione a ciò che si spera possa diventare in futuro.
Il progetto all’interno di un luogo dell’attesa, a ben guardare, può avere diverse soluzioni, addirittura contrastanti. Per esempio, lo spazio dell’attesa delle stazioni può essere progettato per distrarre l’individuo dall’attesa del viaggio, impegnandolo in altre attività o, all’opposto, avere la funzione di introdurre al viaggio. Attesa, poi, vuole dire anche momento di sospensione rispetto a un’attività, per esempio di lavoro o studio. In questi casi, si può parlare di “luoghi di decompressione”, in cui il progetto può essere utile ad abbassare la tensione e a garantire altri aspetti: ludici, artistici, creativi.
Durante le chiusure forzate, le case hanno ritrovato una frequentazione di cui si era persa la memoria, ognuno ha cercato di costruire rapporti quotidiani con gli spazi e gli oggetti.
Il grande quesito è se occorra seguire la tendenza di una società che vuole vivere assecondando la velocità e riducendo al minimo i luoghi dell’attesa, oppure se questi ultimi possono diventare spazi per consumare esperienze. La panchina, per esempio, è un luogo-strumento per l’attesa, per la sospensione dalle tensioni urbane, ma anche un ‘osservatorio’ e un luogo per il riposo, la contemplazione e lo svago.
Negli ultimi anni, alle grandi attese (per la fine delle emissioni nocive, della produzione della plastica, delle guerre), si è aggiunta l’attesa per la fine della pandemia. Durante le chiusure forzate, le case hanno ritrovato una frequentazione di cui si era persa la memoria, ognuno ha cercato di costruire rapporti quotidiani con gli spazi e gli oggetti. Il balcone, quello strumento abitativo che, nelle mie opere degli anni Settanta, riusciva a rappresentare il modo di rompere la barriera tra interno ed esterno, è diventato uno degli spazi più utili per superare la forzata claustrofobia domestica.
Stiamo aspettando la fine della pandemia, affidandoci alla teoria che tutto, prima o poi, finisce. L’attesa si fa sempre più difficile e faticosa! Intanto, le nostre città si sono trasformate in un “ristorante a cielo aperto”, nuova condizione di “luogo dell’attesa”, a cui ne seguiranno altri: attrezzati per attività individuali e collettive, pensati in modo da proteggerci o, ancora, per accogliere nuovi modelli di comportamento, rinnovando i tradizionali parametri della prossemica.