Un BIG smile
Abbiamo incontrato Bjarke Ingels all’inizio di settembre allo showroom di Artemide a Milano per il lancio delle nuove lampade firmate BIG durante la Design Week 2021. Per l’occasione siamo passati dal micro al macro, partendo dalle lampade in vetro soffiato fino alla progettazione di città utopiche da zero, senza aver trascurato l’idea di mobili robotici “galanti”. Non avevo mai incontrato Ingels di persona, la mia opinione su di lui era basata solo sull’osservazione della massiccia produzione architettonica del suo studio negli ultimi 15 anni, sul film BIG Time a lui dedicato, sui racconti dei colleghi, sulle decine di articoli lusinghieri letti nel tempo e sulle immagini di Google di questo avvenente giovane danese. Quelle foto risalgono a quando ha fondato il suo studio a 32 anni – oggi ne ha 47 – ma il suo atteggiamento è rimasto quello di un giovane creativo, spontaneo, forse apparentemente ingenuo. Ha proposto di fare l’intervista all’aperto in una bella serata di fine estate, con un bicchiere di vino bianco in mano, sorriso caldo e voce ferma, pragmatica: Ingles sa come farti sentire a tuo agio e questo potrebbe essere il primo motivo per cui tutti vogliono stargli vicino, oltre alle sue qualità professionali.
Uffici robotici
Durante l’intervista, fatta di sette brevi domande e sette lunghe risposte, ha iniziato a descrivere le nuove lampade per Artemide nello stesso modo in cui l’ho visto descrivere la sua centrale CopenHill nel film BIG Time: pratica e facile da seguire. “La lampada da lavoro sembra uno schizzo per bambini. Una sola linea senza sollevare la penna”. È allora che gli chiedo quanto tempo passa effettivamente sui progetti di design e mi risponde che è il suo socio Jakob Lange a dirigere quel dipartimento, mentre il suo coinvolgimento è “più colloquiale che altro”, e un altro grande sorriso. Secondo lui il product design è la possibilità di estendere l’intenzione di un edificio o di uno spazio nell’oggetto che lo occupa. Con il team di Lange, ha sviluppato una serie di mobili per la sede di un’azienda di intelligenza artificiale e robotica: “Puoi parlare ai mobili e loro si riconfigureranno come hai chiesto. Puoi entrare in uno spazio e dire ‘auditorium!’ e tutti i mobili si muovono e creano un’ambientazione da auditorium. Quando arrivi la sedia è come un maggiordomo che ti accompagna a sederti. Questo rende l’edificio più ospitale”, spiega. “Ricordi La Bella e la Bestia? Con tutti i mobili del castello stregato che si muovono? Questo potrebbe in qualche modo diventare realtà!”. Quando gli chiedo se succederà davvero, mi risponde che il gruppo di lavoro che lavora al progetto è una specie di task force per compiti estremamente difficili: più sono difficile, meglio è. Quindi la risposta forse è sì. Inoltre, spiega che ci sono già tutte le tecnologie che servono – sensori visivi e luminosi, sistemi di riconoscimento vocale, i robot che vengono utilizzati nei magazzini o come host nelle lobby o per la sicurezza – quindi si tratta solo di metterli insieme. “Una flessibilità senza sforzi avrebbe senso in molti ambienti di lavoro”, spiega.
La mia Audi elettrica
Probabilmente la mia espressione non sembrava convinta al 100%, così mi ha ricordato che 40 anni fa immaginare un tavolo motorizzato-regolabile sarebbe sembrato assurdo e inutile, ma oggi è addirittura obbligatorio in certi ambiti. Allo stesso modo i mobili robotizzati potrebbero sembrare eccessivi oggi ma potrebbero avere un senso domani. Ha usato la sua Audi elettrica per fare un esempio: “Ha gli specchietti laterali virtuali – una piccola videocamera fuori dall’auto con uno schermo tv – all’inizio pensavo fosse l’ennesima cosa che si poteva rompere (e non è mai successo) ma di notte o con la pioggia o con la nebbia, l’immagine è incredibilmente nitida, mentre i sensori dell’auto possono dirti se c’è una bicicletta dietro di te nel caso tu non l’abbia vista! All’inizio ho pensato che fosse qualcosa di inutile, ma ora mi rendo conto che ha assolutamente senso. È come quando il riconoscimento facciale è arrivato sui nostri telefoni e pensavamo che fosse inutile perché digitare una password non era poi così difficile ma ora che con l’uso delle mascherine il riconoscimento facciale non funziona più, digitare le password più e più volte ci sembra inutile”. Alla fine per Bjarke Ingels il design è dare forma al futuro, “dare forma a qualcosa che non ha ancora una forma, ed è qui che la tecnologia diventa una grande fonte”.
Il riconoscimento facciale è un “opt–in”
Quando gli chiedo se non vede qualche aspetto critico in questi edifici che stanno diventando esseri intelligenti, risponde che ogni tecnologia può essere abusata, suggerendo che questo non dovrebbe impedirci di immaginare il futuro e salta rapidamente al mondo automobilistico, che è l’avanguardia di questo “mondo animato” (un curioso parallelo con la filosofia Inanimatti di Chris Bangle). “L’auto ti riconosce, adatta i sedili alle tue preferenze, quando inizi ad accelerare ti rimbocca un po’ la cintura di sicurezza solo per farti sentire protetto”. Per quanto riguarda il riconoscimento facciale “potrebbe impedirti di entrare in posti dove non dovresti all’interno di un edificio per uffici, ad esempio, o evitare che i lavoratori debbano armeggiare continuamente con le chiavi elettroniche”. L’esempio diventa estremo quando si parla di riconoscimento facciale all’interno del negozio fisico di un marchio di moda online, dove con il riconoscimento facciale i dipendenti possono già sapere le esigenze del cliente quando entra e assisterlo al meglio, oppure riconoscere al volo i “clienti buoni”. “Questi viaggi dal virtuale al reale, questa idea che c’è un mondo gemello che ha altre possibilità rispetto a quello fisico e che ci sono modi per questi due mondi di aiutarsi a vicenda, sarà una frontiera nel mondo della costruzione”. E per quanto riguarda la privacy o altre importanti norme legali sulla sicurezza di questi dispositivi? “Sono tutti elementi opt-in: si può scegliere. Puoi scegliere se ti piace l’idea di essere riconoscibile al negozio, non è una cosa automatica: lascerei che chi si occupa di regolamentazione faccia il proprio lavoro”.
E per quanto riguarda Telosa?
Bjarke Ingels ha incontrato l’uomo d’affari e imprenditore Mark Lore (proprietario dell’NBA, ex capo dell’e–commerce di Walmart dopo l’accordo con Amazon e CEO di diverse startup da milioni di dollari) all’inizio di quest’anno e lo ha convinto a diventare partner del suo incredibile prossimo passo: costruire una città utopica da zero brandizzata Telosa (un nome derivato dall’antica parola greca usata da Aristotele che significa “scopo più alto” come spiegano su cityoftelosa.com), unendo le teorie di Progresso e Povertà di Henry George a quelle dell’equitismo per un “capitalismo riformato” dove la proprietà della terra (land owners) è gestita da una fondazione privata che ne monetizza il valore crescente, per poi re-investirlo in benessere e ricchezza per i cittadini. “Alcuni proprietari vedono il valore della loro proprietà aumentare senza aver fatto niente per la comunità, è quasi feudale”, commenta Ingels. “Immagina un modello in cui la città fornisce istruzione gratuita, sanità gratuita, sicurezza sociale e servizi per i cittadini. Così, quando la città cresce e il valore della terra cresce, quell’apprezzamento di valore appartiene alla fondazione e la fondazione lo reinveste per migliorare la qualità della vita delle persone che ci vivono, rendendola più prospera e di successo e creando un ciclo in cui la crescita della città, economicamente e fisicamente, aumenta anche l’inclusione e l’equità”.
Immagina un modello in cui la città fornisce istruzione gratuita, sanità gratuita, sicurezza sociale e servizi per i cittadini
Una città da zero
Sembrano tutte parole giuste al posto giusto, ma quando gli chiedo cosa significa veramente costruire una città, mi spiega l’importanza di partire da zero. Prima di tutto, per sperimentare nuove infrastrutture sostenibili non si può agire su una vecchia struttura esistente, meno efficace o economicamente non competitiva. In secondo luogo, “ci darà la possibilità di implementare i migliori sistemi e tecnologie e filosofie attualmente conosciute su biofilia, paesaggio e trasporti. In questo modo possiamo vedere cosa potrebbe essere realmente una città sostenibile oggi”. Dopodiché si inizia con un’impostazione dei valori, (come in un’azienda) o con la dichiarazione di una mission. “Sappiamo cos’è la città. Sappiamo perché vogliamo farlo. Naturalmente, dobbiamo trovare il modo di far sì che ci vadano i primi abitanti: perché l’esperimento funzioni davvero deve diventare una metropoli in 30 anni. Entro il 2050 ci vivranno 5 milioni di persone, idealmente”. Costruire una città da zero in America non è così raro e mi cita Miami, giovanissima, o Las Vegas, un sottoprodotto della diga di Hoover. “Le grandi città da milioni di abitanti sono venute fuori dal nulla negli Stati Uniti, e forse possiamo farlo di nuovo! È un esperimento che vale la pena provare”. Staremo a vedere.
Immagine di apertura: Bjarke Ingels in BIG Time, il documentario di Kaspar Astrup Schröder, 2017. Frame dal video