Concepire il digitale come un territorio urbano, in cui diventano prioritari diritti, politiche e forme; mettere a terra queste innovazioni di pensiero attraverso strumenti concreti: si tratta di istanze sempre più rilevanti, che non possiamo più permetterci di pensare come avremmo fatto, per esempio, solo due estati fa. Perché tali istanze coinvolgono la trasformazione del rapporto tra la tecnologia e l’umano in maniera totalizzante: un territorio dove la pandemia ha cambiato tutto, anche al di là di questioni meramente fenomenologiche quali il trasferimento quasi integrale delle nostre vite online e la completa rinegoziazione del nostro habitat fisico.
Francesca Bria, nel suo precedente mandato come Assessore per la digitalizzazione e l’innovazione per la città di Barcellona, ha potuto promuovere la sperimentazione di alcuni strumenti appartenenti a questo ambito, e si trova attualmente davanti alla sfida di implementarne di nuovi, stavolta su scala nazionale. In Italia è Presidente del Fondo Nazionale Innovazione di Cassa Depositi e Prestiti, posizione cui affianca il suo ruolo di Senior Advisor per Nazioni Unite e Commissione Europea in fatto di smart cities e innovazione digitale.
I processi decisionali e di trasformazione urbana che ha contribuito ad attuare a Barcellona sono stati fondati su un principio di democrazia partecipativa, implementata su una piattaforma digitale come Decidim. Come ha raccontato in occasione del festival “Change. Architecture. Cities. Life” — festival dell’Architettura di Roma — c’è stata anche una forte azione di outreach, raccolta diretta della domanda dei cittadini sul territorio. La nostra conversazione è partita proprio da qui.
Ci può raccontare come è avvenuta la combinazione di digitale e analogico alla base della sua esperienza a Barcellona?
A Barcellona abbiamo trasformato il rapporto fra istituzione e cittadini, e istituito una piattaforma di partecipazione pubblica in cui quattrocentomila cittadini hanno contribuito a definire obiettivi politici.
Le persone fanno spesso fatica a capire cosa viene deciso, perché e come vengono stabilite le priorità e investiti i fondi pubblici. Abbiamo invece rivoluzionato la partecipazione democratica, attraverso un meccanismo ibrido di democrazia digitale, che è una cosa molto diversa da una “Facebook democracy”, in cui ti dicono clicca qui e l’algoritmo elaborerà le soluzioni a problemi che invece sono complessi e che necessitano di veri processi democratici.
Come ci siete riusciti?
Oltre alla piattaforma digitale abbiamo infatti anche organizzato sei mesi di riunioni e assemblee cittadine nei quartieri. Il 70 per cento dei suggerimenti e delle proposte scaturiti da queste discussioni sono diventati l’agenda di governo della città con proposte molto rilevanti come l’aumento delle piste ciclabili e degli spazi verdi, nuovi spazi per la vita culturale, sostegno a piccoli negozi e laboratori artigianali, produzione locale su modello di economia circolare, gestione pubblica dell’acqua, progetti contro l’inquinamento ambientale. Abbiamo anche raggiunto una forte eterogeneità nella composizione dei cittadini che hanno partecipato, non erano solo i giovani, c’era una grande diversità etnica, di genere, di estrazione sociale.
Ci sono elementi di questo processo che possono innescarne di simili localmente in altre città? Secondo la sua esperienza, a che scala?
Uno degli elementi più importanti delle città è la loro capacità di fare rete, condividendo politiche, progetti, norme e applicazioni. Quando ero Assessore a Barcellona, ho coordinato una rete di Chief Innovation Officers (CIOs) a livello globale, lavorando con i colleghi di Parigi, New York e Amsterdam, Dubai, Seoul, Buenos Aires, Istanbul e Nairobi. Sono città estremamente diverse, con contesti sociali, culturali e geopolitici differenti. Ma hanno tutte problemi in comune, e la condivisione di esempi virtuosi ha permesso di riadattare soluzioni tecnologiche e applicazioni ai contesti locali.
Per garantire una effettiva sovranità digitale, proprietà digitale dei cittadini e non di soli gestori privati, o del solo Stato, “a che punto ci troviamo” e “cosa resta da fare” nel raggiungimento di una “digital equality”, nell’informazione e formazione di tutte le fasce della cittadinanza riguardo a diritti sui propri dati, privacy e loro controllo?
La Coalizione delle città per i diritti digitali, che io ho contribuito a fondare quando ero a Barcellona insieme alle città di New York e Amsterdam, mira a promuovere, proteggere e sostenere i diritti umani su Internet a livello locale e globale. Con il supporto delle Nazioni Unite, di cui io sono Senior Advisor, condividiamo le migliori pratiche, impariamo dalle sfide e dai successi delle altre città e coordiniamo iniziative e azioni comuni. Internet è diventato inseparabile dalla nostra vita quotidiana. Eppure, ogni giorno, ci sono nuovi casi di abuso dei diritti digitali, abuso e disinformazione e concentrazione di potere in tutto il mondo: la libertà di espressione viene censurata; informazioni personali, compresi i nostri dati personali, movimenti e comunicazioni, vengono monitorate e vendute a fini commerciali senza consenso; algoritmi spesso opachi vengono utilizzati per prendere decisioni non responsabili; i social media vengono utilizzati come strumento di incitamento all’odio e di diffusione di fake news e teorie cospirative; e i processi democratici e l’opinione pubblica vengono indeboliti.
La dichiarazione della Coalizione afferma chiaramente che i principi dei diritti umani come la privacy, la libertà di espressione, la democrazia e la partecipazione attiva dei cittadini debbano essere incorporati nello sviluppo delle tecnologie e delle piattaforme digitali a partire dalle infrastrutture e dai servizi digitali controllati localmente.
Una volta che le amministrazioni abbiano accumulato sufficienti dati, ci possono essere dei rischi per la sopravvivenza dei processi partecipativi? Come ci si pone rispetto alla smart city come corpo fisico che fornisce dati e a cui i dati vengono restituiti?
È più visibile il fatto che i dati siano una nuova infrastruttura urbana, come l’acqua, l’elettricità, i trasporti e così via. I dati sono essenziali per prendere decisioni migliori, migliorare i servizi pubblici e valutare l'impatto delle politiche che attuiamo.
Come nel caso di Barcellona, i dati diventano un bene comune che le città possono utilizzare per risolvere i problemi ambientali e sociali, preservando allo stesso tempo la privacy, la sicurezza e i diritti dei cittadini.
E qui, nel caso di Barcellona, entra in scena Decode.
Sì, la sperimentazione di Barcellona è stata possibile grazie al progetto Decode, co-finanziato dalla Commissione Europea. La visione è che i cittadini gestiscano i propri dati attraverso il “Decode wallet”, che utilizzando una tecnologia blockchain con crittografia avanzata ti permette di decidere quali dati tenere privati, quali condividere, con chi e a quali condizioni. Ad esempio, i cittadini possono decidere di condividere i loro dati della mobilità con il Comune, perché sanno che queste informazioni possono migliorare il trasporto pubblico, ma senza fornire questo tipo di dati privati a una compagnia di assicurazioni o ai pubblicitari.
presentazione del progetto Decode
Per Rahul Mehrotra e Sarah Whiting, la pandemia ha portato al centro del nostro vivere scale inedite, come lo spazio aperto a disposizione delle abitazioni, e quella di una città che si disperde tra le diverse case da cui ci connettiamo tra cittadini. Può trattarsi davvero di una messa in discussione del modello-città?
Io credo che assisteremo alla trasformazione di un modello urbano che prevede posizioni centrali in base alla densità dei corpi. Il virus ha solo accelerato una serie di processi che erano già in movimento.
Stefano Boeri dice che le nostre città potrebbero trasformarsi in una serie di arcipelaghi, con villaggi e quartieri autosufficienti, capaci di ridurre al minimo gli spostamenti. Ridurre gli spostamenti e i viaggi non significa ridurre la circolazione di cultura, conoscenza e informazione. Quelli continueranno a vivere grazie alla tecnologia e alla connettività, come la banda ultra larga che va estesa a tutti i territori.
Qual è la scala alla quale si dovrà progettare la città da questi tempi in poi?
Le innovazioni tecnologiche sono indispensabili per questa trasformazione verde e digitale, inclusa la diffusione di trend come lo smart working e la didattica a distanza. l’Italia ad esempio è un paese di borghi e aree interne. Bisogna quindi mettere in campo un modello decentralizzato, evitando quindi di aprire o aggravare fratture.
Rem Koolhaas parla non solo di smart cities, ma anche di smart countryside come futuro sostenibile. Molte città stanno parlando del modello “15 minutes city” implementato ad esempio a Parigi e Barcellona, ovvero un modello di spazi e quartieri autosufficienti in una dimensione metropolitana, in cui ogni cittadino potrà raggiungere i servizi necessari per mangiare, divertirsi e lavorare in un quarto d’ora, a piedi o in bicicletta.
Lei ha una posizione molto chiara sul ruolo dell’attore pubblico nella gestione dei processi di innovazione: sovranità digitale, gestione pubblica dei dati raccolti sono alcuni esempi. E il settore privato?
Bisogna creare partnership virtuose e simbiotiche fra pubblico e privato, in un modello che favorisca un forte ritorno pubblico degli investimenti.
Il ruolo del privato, dagli investitori, alle grandi imprese, alle startup è fondamentale per creare innovazione sostenibile e lavori di qualità. Ma non basta accelerare la digitalizzazione, bisogna darle una direzione, dare vita ad un vero e proprio nuovo patto verde e digitale, perché si tratta di usare le tecnologie digitali per raggiungere una sostenibilità sia sociale che ambientale.