Le restrizioni imposte per contenere la diffusione del Covid hanno avuto un grosso impatto sulle abitudini di gran parte della popolazione mondiale in fatto di mobilità e hanno favorito l’emergere di nuovi modelli di spostamento urbano.
Stando ai dati del Google Mobility Report, dall’inizio della pandemia, le capitali globali hanno registrato una forte riduzione nell’uso del trasporto pubblico, con diminuzioni del 71% a Londra, del 43% a Nuova Delhi e di quasi un terzo a Sidney. Al contrario, sono aumentate esponenzialmente altre modalità di trasporto attivo, per necessità o piacere.
Da qui, il ripopolarsi delle città di ciclisti, attratti dalle strade vuote e una migliorata qualità dell'aria. A Filadelfia l'utilizzo della bicicletta è più che raddoppiato, il Regno Unito ha visto un boom nelle riparazioni di bici e a Wuhan, dove la pandemia si è originata, i servizi di bike sharing hanno registrato aumenti fino a dieci volte rispetto ai livelli pre-Covid.
I governi in tutto il mondo non sono rimasti a guardare, rimodellando gli schemi della loro mobilità urbana in direzione del ciclabile e investendo in grandi schemi di bike sharing dalle tecnologie sempre più intelligenti e innovative. Tuttavia, per quanto questa normalizzazione e accessibilità della mobilità ciclistica siano indubbiamente da incoraggiare, dall’implemento su larga scala di questi sistemi di sharing derivano anche delle responsabilità.
A differenza di altri modelli di mobilità condivisa, come nel caso del car sharing o di city scooters, nel bike sharing “sono richiesti approcci professionali, finanziamenti adeguati, flessibilità di pianificazione, meccanismi di governance democratica e una valutazione adeguata", ha spiegato Esther Anaya, ricercatrice in mobilità ciclabile presso l’Imperial College London. Infatti, mentre in molte capitali europee l'adozione di questi servizi nei decenni scorsi ha portato consistenti benefici in termini economici e sanitari, altre realtà si sono trovate impreparate ad ospitare sistemi di bike sharing aggressivi, con risvolti fallimentari.
“Potrebbe sembrare controintuitivo, ma quando vengono implementati grandi servizi e c’è un boom nel loro utilizzo, le biciclette e le stazioni vengono sovrautilizzate, richiedendo una manutenzione più intensa o la loro sostituzione”, ha detto Anaya. E quando i servizi non sono preparati a coprire rapidamente le conseguenze finanziarie dell’uso eccessivo del bike sharing, la qualità ne soffre, la vandalizzaizone aumenta, l’immagine del servizio viene danneggiata e può rivelarsi troppo costoso rimediare, ha commento la ricercatrice. Le foto dei "cimiteri delle biciclette” in Cina alcuni anni fa hanno testimoniato quali minacce riserva il fiasco di un bike sharing che, quando non interamente pensato e adeguatamente strutturato, lascia migliaia di tecnologici veicoli a due ruote deteriorarsi in problematico e-waste.
Una valutazione appropriata sul background culturale e storico, sull’educazione, sulla comunicazione, sugli strumenti di pianificazione. Io la chiamo una politica ciclistica integrata.
Nello specifico caso delle città asiatiche, le battute di arresto che i sistemi di bike sharing hanno incontrato vanno al di là dei semplici problemi di mobilità, già di per sé complessi. Lì, infatti, i servizi sono per lo più proprietà di aziende che operano nel mercato globale con un approccio neoliberale basato sui dati che raccolgono grazie ai progressi delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC). “Queste aziende sfruttano i dati dei loro utenti e l'uso dello spazio pubblico, approfittano dei consigli comunali che non sono consapevoli delle conseguenze di queste attività o non sono riusciti a imporre regolamenti per proteggere i cittadini”, ha detto Anaya.
Un problema particolarmente sentito in Occidente, dove – a differenza della Cina – l’occupazione dello spazio pubblico è una questione molto delicata e i regolamenti in materia sono rigidi. Quando queste compagnie sbarcarono in Europa qualche anno fa si rivelò controverso implementare i loro sistemi nelle città. L’inadeguatezza del servizio fu lampante persino in un centro urbano contenuto come Milano, le cui strade bloccate da mucchi di biciclette gialle del servizio di sharing cinese Ofo e le foto delle bici buttate nei Navigli restano un ricordo vivido tuttora. Anaya ha spiegato che si tratta di “un caso di trasferimento di una politica a favore delle bici in cui manca però una valutazione appropriata sul background culturale e storico, sull’educazione, sulla comunicazione, sugli strumenti di pianificazione. Io la chiamo una politica ciclistica integrata”.
A ciò, si aggiunge il rischio di creare disuguaglianze. Infatti, seguendo scelte logistiche e finanziare, spesso le stazioni per il bike sharing sono posizionate nelle aree più ricche delle città, lasciando così indietro tutta una porzione della popolazione, proprio quella che verrebbe maggiormenteavvantaggiata dai benefici sanitari ed economici dell’utilizzo del servizio. “L'equità deve essere presa in considerazione e deve essere valutata fin dall’inizio, altrimenti ci sono rischi di esclusione sociale, che è un peccato quando si parla di un servizio di trasporto pubblico, nello specifico quando è di proprietà della pubblica amministrazione”, ha commentato la ricercatrice.
Perciò, mentre durante il Covid da Giacarta a Bogotà a New York le metropoli si sono impegnate nella creazione di nuovi servizi di bike sharing e nell’estensione dei loro sistemi ciclabili, diventerà per loro imprescindibile elaborare anche un insieme di politiche ciclistiche integrate agli altri più ampi sistemi di mobilità, all’urbanistica e al panorama culturale. In questo contesto, il ruolo delle città diventerà determinante nel garantire il successo del servizio, laddove saranno loro stesse in primis a mettere in atto infrastrutture idonee, quadri normativi pertinenti e un equo accesso alle biciclette. Per far sì che il bike sharing funzioni, conclude Amaya, “è ora di prendere sul serio le politiche ciclistiche”.