A inizio anni ‘80 la Via Emilia appariva agli occhi e nelle fantasie degli emiliani come una Sunset Strip nostrana e ruspante. Le sue 182 miglia romane erano scandite da case cantoniere e poderi dismessi, ma anche da capannoni e insegne al neon di dancing e balere, nuovo simulacro di una popolazione che, sì, aveva trovato un riscatto nella falce e martello, ma che al tempo stesso vedeva in quei chilometri un Sunset Boulevard al Lambrusco e nella costa adriatica “una luminosa, viva, frizzante Nashville”, come scriveva l’autore emiliano Pier Vittorio Tondelli che di queste terre e gente fu cantore sublime.
Sono, questi, anni di crocevia socio-politici anche per la regione rossa par excellence. In un’intervista lucidamente demenziale pubblicata nel 1984 su Frigidaire, Raoul Casadei si confessa alla penna di Freak Antoni degli Skiantos: “voto Pci, ma spero un giorno di votare Psi”.
Risale allo stesso anno Ortodossia, primo 45 giri dei Cccp, gruppo di ragazzi emiliani che, conosciutisi e fattosi le ossa a Berlino, si autodefiniscono Fedeli alla Linea, nonché fautori di un “punk filosovietico”. In un’Emilia travolta dall’incedere del ruggente sogno reaganiano, la loro ricetta etica, prima ancora che musicale, è una riscoperta delle radici Europee dell’Italia, di un’Europa che abbraccia tutte le nazioni sovietiche, e arriva fino all’Islam. Tutte parti di un inconscio europeo che viene, in quegli anni, riscoperto dalla gioventù emiliano-romagnola. Quel Punk Islam profeticamente figlio di un’Europa in cui Turchia e Germania sono espressione e ibridazione di un’unica cultura. “Ora, se la prateria diventa taiga, o tundra, o steppa, cambia effettivamente qualcosa oppure no?”, si domanda Tondelli in chiosa al suo articolo sulla band, poi incluso in Un Weekend Postmoderno (Bompiani, 1990).
A quarant’anni di distanza, a Reggio Emilia, presso i Chiostri di San Pietro, inaugura “Felicitazioni!” una mostra che traccia il percorso dei CCCP – Fedeli alla Linea e lo fa, a ricordarci della lungimiranza del gruppo, a poche ore dall’assegnazione degli Europei di calcio 2032 ad Italia e Turchia, in tandem. La mostra, promossa e organizzata da Fondazione palazzo Magnani e dal Comune di Reggio Emilia, è curata dagli stessi CCCP, con sapienti allestimenti di Stefania Vasques e light design di Pasquale Mari e Gianni Bertoli.
Nei 28 spazi si alternano installazioni di artisti contemporanei, tra cui Roberto Pugliese, Arthur Duff, Stefano Roveda e Luca Prandini, a preziose, nonché spesso inedite, ephemera d’archivio. Ci sono fotografie, filmati amatoriali e promozionali, costumi di scena, bozzetti di copertine, riviste, fanzine e ritagli (più o meno lusinghieri) di giornale, spille, flyer e manifesti, addirittura una registrazione, inedita, riportata alla luce da un nastro live del 1983, miracolosamente ritrovato e restaurato: tutto frutto di un decennale lavoro di archiviazione e salvaguardia fortemente voluto da Annarella Giudici, Benemerita Soubrette e oggi, come scherza il frontman Giovanni Lindo Ferretti, “depositaria testamentaria dei Cccp”.
Stanza dopo stanza emerge una psicogeografia emiliana parallela, ma non per questo apocrifa. La visione di quattro giovani – Giovanni, Massimo, Annarella, Danilo – che sintetizzano con irriverenza punk e stratificazione postmoderna un’epica ed un’estetica che unisce ai trasferibili, ai ritagli di fotocopie Xerox e al cemento del brutalismo sovietico l’Appennino dei canti alpini, il contado del liscio, degli strumenti da lavoro elevati a mezzo performativo. La catena da vacca usata come cintura, il giogo per accompagnare i balli, le falci, le ruote di biciclette e le tagliole bradite verso il pubblico, il casco da Bersagliere indossato con il chiodo di pelle, parti di trattore Fiat. Simulacri emilianosovietici che riemergono da carteggi e scalette abbozzate con precisione situazionista da Danilo Fatur e poi riportati attorno a un totem, un tronco di faggio trafitto di chiodi come un San Sebastiano al centro della sala dedicata al disco Socialismo e Barbarie.
Un fil rouge concettuale che si ritrova nei ventotto scatti, quasi tutti inediti, di Luigi Ghirri realizzati a Villa Pirondini per raccontare l'ultimo album del gruppo Epica Etica Etnica Pathos. Nelle immagini di un filmato inedito Annarella posa contro il muro dell'edificio settencesco, caduto in disuso e occupato dal gruppo per registrare il suo canto del cigno, in quello che la band definisce “un prima senza un poi”. Le immagini riportano alla mente il candore della stessa, giovanissima, a Fellegara, la prima dimora dei CCCP. Campagna emiliana che si fa studio di registrazione e, prima ancora, luogo di incontro di punkettoni delle ceramiche, contadini, giornalisti in erba in cerca di un futuro intellettuale. “Non una comune, ma una casa comune che avanzando d’età ha dato di matto”.
A incarnare l’identità, morale, grafica e musicale, del gruppo un titolo del Corriere della Sera del Luglio 1987: “Liscio e punk sognando l’URSS”.
Tra i reperti più straordinari che scandiscono lo stupefacente allestimento c’è, non a caso, il grande tavolo ottagonale appartenuto alla sede reggiana del Pci e a cui, si narra, sedette Togliatti. Costruito da maestranze comuniste sotto il regime fascista, fu abbandonato e deturpato affinchè non cadesse nelle mani dei partigiani, per poi essere riabilitato dal partito. Questo e altri oggetti salvati dalla sede restituiscono, a partire dalla loro matericità, dal legno, dal ferro, tutto il peso del Novecento in questo angolo d’Italia, ma anche quella che, simbolicamente, è stata l’enigmatica ma deflagrante austerità del gruppo nel panorama controculturale italiano.
I flyer, i nastri, le fotografie tratteggiano una mappa di un underground italiano che dall’Emilia Paranoica del Tuwat di Carpi, pardon Karpi, e dallo storico debutto del balconcino di gusto fascista di Santarcangelo di Romagna, passava in Puglia dalla Melpignano de Le Idi di Marzo, il primo festival di rock filosovietico italiano e dalla Flog di Firenze per culminare, pochi mesi prima della caduta del Muro, a Mosca e Leningrado nel Marzo 1989.
C’è il workwear e l’abbigliamento bellico che i Cccp glamourizzarono nello Stivale in tempi non sospetti, in quella fascinazione per camicie, tute e cappotti militari, per i beige, verdi e i grigi da trincea e Repubblica di Weimar che tanto sedussero i giovani post-punk e che oggi i nostri indossano ancora con grande charme. “Andavamo alla Montagnola (storico mercato delle pulci bolognese, Ndr) a comprare vestiti militari,” ci racconta Fatur, che di vestirsi (e svestirsi) per provocare e scandalizzare è stato maestro. Ma anche capi da space race costruttivista, yè-yè e stella rossa, abiti da crocerossina e da sposa emiliano-situazionista.
Il tutto serve a sottolineare come la grandezza dei Cccp sia da ritrovarsi anche nella loro dimensione performativa, grafica e estetica, spesso trascurata ma senza dubbio la più attuale, irriverente, deflagrante. Lo ricorda anche la seconda capsule collection di abbigliamento e accessori che Slam Jam, nato proprio nel 1989 in coda alla stagione punk italiana, dedica ai Cccp in occasione della mostra.
A proposito di ‘89: una porzione di Muro di Berlino che troneggia serafico, di fianco a una Trabant, squarciando il silenzio dei chiostri con la sua forza iconografica.
“Quando è arrivato il pezzo del Muro di Berlino ho visto uomini adulti piangere. Questo è il comunismo emiliano: ha significato uscire dalla servitù della gleba, ha significato riscatto. È il contrario di voler erigere muri,” commenta il chitarrista del gruppo Massimo Zamboni.
Le sue parole si scontrano con quella che è la Via Emilia oggi: le discoteche e le balere sono carcasse di cemento divorate, prima che dai rovi, dalla capitolazione della musica come urgenza collettiva. In altri casi sono diventate capannoni e parcheggi di supermercati, eredità sbiadita di quel sogno americano che ogni tanto resiste nelle insegne di sale slot. Su tutte, Miss America con la sua riproduzione della Statua della Libertà, a pochi chilometri da Italia in Miniatura e da un Mc Donald’s.
La mostra arriva in un tempo post-ideologico, post-industriale, apparentemente lontanissimo dai presupposti originari del gruppo, ma non meno divisivo. Anzi, forse più utile a comprendere l’opera dei Cccp liberi dai presupposti partitici che portarono molti giovani a abbarracciare o, altrettanto repentinamente, rigettare il gruppo.
“La storia non sta finendo, si sta vendicando,” riflette Ferretti, “Tutto ciò che doveva portare la democrazia con il crollo del ‘grande impero del male’ è stato un grande bagno di sangue. Eppure siamo vivi e se non ci sarà più nessuno per fruire della nostra opera, chi se ne frega, avremo fatto un bellissimo mandala.”
Definita dal gruppo come la loro “ultima performance stabile”, la mostra pone un precedente importante e virtuoso nel trattare, finalmente con gusto negli allestimenti e peso istituzionale, una tematica legata alla dimensione controculturale del Paese partendo dalla provincia, laddovè molte di queste storie sono germogliate.
Felicitazioni, dunque, ai Cccp e a Reggio Emilia, “la più filosovietica delle province dell’Impero Americano”.