Descrivere quel che accade – mentre accade, dopo che è accaduto o prima che accada – è comunque una sorta di “fallimento”. Tuttavia, non sempre le parole si leggono in un unico senso. È il caso di OTTO: parola, numero e segno, che se rivoltato indica l’infinito. La decisione di rimettere in scena una performance dopo 15 anni dal suo debutto avvalora l’idea che anche il tempo non ha un unico significato.
OTTO è la conferma dell’impossibilità di rappresentare qualsiasi cosa. Guardando, cerchiamo di dare un senso a quello che accade, ma per OTTO si tratta di un’unica azione (cadere) che si ripete in modo incessante, cercando l’annullamento. Nel momento più “esausto”[1] scopriamo che resistendo all’abbandono della non-significazione, noi stessi rappresentiamo un fallimento. Ecco svelato il gioco dello specchio che mette in relazione diretta l’attore che cade e lo spettatore seduto in attesa della caduta.
L’attore entra in scena, cade e si rialza. C’è il rumore del tonfo e la musica sottile trasmessa dalle cuffie collegate a un lettore CD che sembra esattamente quello di alcuni anni fa. Tuttavia, quello che cade rimane come traccia indiziaria di un omicidio, perché cadere (soprattutto sulla scena) è sempre un po’ morire. Infatti, l’unica figura che resta in piedi è la sagoma disegnata di uomo che prende la mira con una pistola.
Ma anche la morte può non avere senso e la perdita del gesto si relaziona con la presenza di chi osserva. Per la prima volta dal suo debutto, le tracce resteranno nello spazio dell’azione, anche quando gli attori non ci saranno più. In questo modo, si evidenzia che ogni atto è irripetibile e destinato a scomparire, ma ha pur sempre delle conseguenze.
[1] Rimando al titolo del libro AA.VV. Kinkaleri 2001-2008. La scena esausta, (a cura di Kinkaleri), UBUlibri, Milano, 2008
Più la scena si compone attraverso oggetti e azioni, più se ne scompone il senso. È un continuo rimbalzare: da una parte all’altra dello spazio, dagli attori agli spettatori e viceversa. Ogni descrizione è inutile e non posso far altro che riportare le parole degli autori (Kinkaleri/Matteo Bambi, Luca Camilletti, Massimo Conti, Marco Mazzoni, Gina Monaco, Cristina Rizzo): “<OTTO> è un vuoto, ora, una sospensione del mondo, evitare di guardare, conosco già tutto, siamo al massimo valore della rappresentazione crudele del mondo che si offre alla rappresentazione indecente di sé.”
Ovviamente, dietro questa dichiarazione è facile rintracciare la voce di Antonin Artaud (1896–1948) che parla di natura doppia del teatro e non a caso OTTO è un palindromo. Senza però addentrarmi nei pensieri di Artaud mi soffermo su un errore da me commesso, cioè avere tralasciato i due segni presenti nel titolo: “<” e “>”. Adesso percepisco come il linguaggio verbale stesso sia uno spazio che dev’essere riempito e ci siano direzioni precise da seguire. Se capovolgo uno dei due segni e li metto a fianco uno con l’altro, le due frecce diventano “forward” e “rewind” come le figure sopra i tasti di un obsoleto lettore VHS.
L’idea di rimettere in scena dopo 15 anni <OTTO> era forse già scritta nel titolo? Oppure si tratta ancora una volta di un fallimento, in quanto gli attori non saranno più gli stessi: Filippo Baglioni, Chiara Bertuccelli, Andrea Sassoli sono i nuovi interpreti di una partitura mai realmente scritta che i Kinkaleri decidono di riprodurre. Tuttavia, la diversità di chi abita lo spazio non è l’unico motivo per cui <OTTO> non è semplicemente un’ulteriore messa in scena o l’impossibile atto di far rivivere una memoria. <OTTO> è azione che si ripete nello spazio e nel tempo. Più che andare avanti e indietro, l’unico tasto di questo ipotetico VHS che vorrei premere è quello della “pausa”, ma non riesco a trovarlo. Infatti, è impossibile sovvertire l’atto della caduta sospendendo i corpi nel vuoto, come faceva Robert Longo nei suoi giganteschi disegni della serie Men in the Cities.
Siamo di nuovo davanti a un fallimento: mentre l’andare avanti e indietro sono azioni fisicamente e mentalmente possibili, il nostro corpo e la nostra mente non possono mai mettersi in pausa. La banalità di queste osservazioni non è immediata, perché il linguaggio in senso lato ci ha abituato a considerare il movimento come condizione necessaria e la caduta come ostacolo. <OTTO> non è un’ode a questo ripetuto gesto, infatti il ribaltamento a volte può essere altrettanto dannoso e dominante. <OTTO> è la possibilità impossibile di metterci in pausa, di sospendere e di sorprendersi del fatto che non esiste uno stare in piedi così come non esiste il cadere e molto probabilmente non esiste neanche la realtà che ci attraversa come un proiettile.
- Titolo della mostra:
- Il Museo Immaginato. Storie da trent’anni di Centro Pecci
- Date di apertura:
- 22 settembre 2018 – 25 giugno 2019
- Titolo della performance:
- <OTTO>
- Artisti:
- Kinkaleri
- Dates:
- 21settembreh 19.30/ 30 settembre h 19.30 / 5, 12, 19 ottobre h 21.30/ 7, 14, 21 ottobre h 18
- Curatrice:
- Cristiana Perrella
- Sede:
- Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci
- Indirizzo:
- viale della Repubblica 277, Prato