Nella mostra “The last days in Galliate”, Leonor Antunes (1972, Lisbona) stabilisce un dialogo fitto con l’armatura architettonica di Hangar Bicocca, alimentando un tracciamento, un trasferirsi di geometrie, da uno spazio all’altro. Qui l’artista applica una metodologia di precisione, elaborando moduli lineari traslitterati nell’ottone, nel bambù e, talvolta, in materiali plastici. Attinge anche a fonti naturali come le interiora di animali che lei ammorbidisce, annodandole decine e decine di volte su loro stesse. In ogni intervento, i motivi schematici utilizzati, riportati come disegni di progetto in tre dimensioni, vengono fissati e calati dal soffitto, eretti in determinate parti dello Shed e poi proiettati a pavimento. Questi sono raggruppati a creare impressioni sistematiche di volumetria e di simultaneità. Un processo di ricerca complesso, impressionato da radici storiche e parzialmente illuminato dalle sue, dirette parole.
Leonor Antunes. Motivi intrinsechi dominanti
L’artista portoghese stabilisce delicate sospensioni materiche nello Shed centrale di Hangar Bicocca a Milano, citando i maestri modernisti.
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- Ginevra Bria
- 17 settembre 2018
- Milano
Quando ed esattamente dove la tua ricerca sugli stilemi modernisti è cominciata?
Non sono interessata al Modernismo di per sé, come concetto in sé stesso. Ma sono molto più incalzata dalla scoperta di come determinati artisti, designer o architetti hanno affinato, durante quel periodo, le loro ricerche su forme e superfici, con l’intenzione di organizzare una sorta di resistenza contro l’idea di industrializzazione. Gli artisti sui quali a mia volta investigo, sulla base di tracce documentali, hanno operato nel periodo storico del Modernismo, focalizzando le loro competenze e la loro conoscenza su capacità artigiane, come forma di produzione antagonistica nei confronti dell’avanzata di standardizzazione e industrializzazione. Ma il mio approccio non è rivolto a far emergere il loro modo nostalgico, melanconico di generare progetti: tutti loro hanno introdotto qualcosa di nuovo estraendolo, evocandolo dalla loro idea di Passato. Questo è il criterio di studio nel quale sono immersa. Nel percorso di “The last days in Galliate”, sono anche in cerca di creare connessioni con artisti appartenenti all’ondata del Costruttivismo inglese, benché io sia sulle tracce più accentuatamente di figure come Franco Albini e Franca Helg.
In che modo gli architetti Franca Helg (1920-1989) e Franco Albini (1905-1977) hanno rappresentato risorse d’ispirazioni per il tuo ultimo intervento nello Shed?
Da moltissimo tempo sono coinvolta nello studio delle loro pratiche e dei loro progetti. Ho anche realizzato uno specifico intervento, nel 2013, scientificamente basato sul design degli allestimenti da fiera di Albini. Gli architetti lavoravano in questo ambito, progettando strutture minime perché rappresentava una ottima fonte di guadagno. E poi perché Albini è stato invitato a progettare molti, differenti allestimenti in istituzioni pubbliche, come la Triennale di Milano. Studiando questa tipologia di moduli, per una fiera alla quale stavo partecipando, ho avuto l’idea di applicare, di adattare direttamente uno degli stand disegnati da Albini. L’intenzione era di far aderire, in pochi metri quadrati, la mia idea di separare lo spazio, formulando una serie di cornici sospese. Inoltre, la metodologia di Albini è strettamente connessa alla pratica e ai progetti brasiliani di Lina Bo Bardi. Erano amici: lei lavorava per Domus quando si sono conosciuti e successivamente lo ha inviato a realizzare l’unica mostra che lui abbia mai realizzato a San Paolo. Condividevano molte analogie, molte somiglianze nel concepire installazioni e strutture espositive per collezioni museali dedicati alle antichità, tra San Paolo e Genova.
Quale tipologia di liaison architettonica hai stabilito con gli intricati spazi dello Shed, in Hangar Bicocca?
Per me era importante reinstallare e ricomporre la presenza di una figura che è adesso molto radicata nel contesto urbano. Albini ha vissuto e ha insegnato qui a Milano. Continuo a pensare che questo era il pensiero ricorrente quando stavo concependo queste installazioni per Hangar Bicocca. Ho mostrato alcuni dei lavori qui presenti a Londra. Era stato pianificato di mostrane una parte negli spazi di White Chapel lo scorso anno, ma risultava complesso installare alcune strutture. Comunque ho sempre avuto la necessità di lavorare all’interno di ambienti che creassero implicazioni e ai quali potessi far riferimento ricreando uno specifico contesto culturale, storico e geografico. Questo è il punto di vista del mio lavoro, attraverso il quale voglio sensibilizzare le origini dello spettatore e creare una sintonizzazione nei confronti delle mie metodologie, rilette da un pubblico locale. Ritengo che l’audience di Milano abbia molta più familiarità con questa tipologia di linguaggi architettonici e del design. In uno spazio come lo Shed, che è un chiaro territorio post-industriale e una ex fabbrica, è possibile riconoscere la forma dei rivetti che sono stati usati, così come travi e colonne. E questo perché la maggior parte dei processi costruttivi e operativi erano manuali e i lavoratori non avevano, ovviamente, gli attrezzi di precisione di oggi. Per me era importante trasformare i metri quadri a disposizione in uno spazio più domestico. Per questo motivo ho introdotto elementi smimil-scultorei, come le lampade disegnate da Helg e da Albini. Ho disposto analogie di arredi come se loro si stessero allungando nello spazio, delineandone i suoi limiti, dal soffitto fino al pavimento. Ho deciso, inoltre, di aprire i lucernari, con l’intenzione di trasformare lo Shed in una dimensione più calda e familiare, durante il giorno. E anche se la città può non sembrare visibile, la connessione con i dintorni dello Shed, da un esterno ad un interno, dovrebbe sempre essere difeso e sostenuto.
Come si intrecciano il piano orizzontale e quello verticale nell’installazione di “The last days in Galliate”?
Con l’intenzione di unificare lo Shed, ho deciso di disegnare un rivestimento a terra. L’intero corpus di lavori da Modified double impression (2018) a Random intersections #20 (2018), installati simultaneamente, potrebbero dare l’impressione di rappresentare frammenti dispersi appartenenti a differenti mostre. Come se fossero parte di svariati sistemi compositivi. Ma il rivestimento giallo, geometrico e segmentato, steso a pavimento, rappresenta un supporto connettivo, necessario a far si che i lavori sopravvivano in questa stanza enorme. Per questo motivo Discrepancies with F.H series e Enlarged rods (2018) sono adesso leggibili come testimonianze non isolate della mia ricerca. Diventando una sorta di oggetto singolo, unico.
- Leonor Antunes. the last days in Galliate
- Roberta Tenconi
- Hangar Bicocca
- 14 settembre 2018 – 13 gennaio 2019
- Via Chiese 2, 20100 Milano