La locandina ci mostra un leone dall’aspetto gagliardo, fotografato di profilo, la criniera rigogliosa, lo sguardo fiero. Tutt’attorno ha un casto fondale, un frusto tendone da circo, una striscia di terra battuta. Come il leone, si scoprono poi esserci, fotografati nell’identico modo, l’elefante, lo struzzo, il cammello, lo scimpanzé, il rinoceronte, la mucca, l’asino, il maiale. Prelevati da zoo, circhi, parchi naturali, stanno tutti nella stessa epigrafica positura, da xilografia cinquecentesca, diritti sulle zampe, alteri. Dietro, lo stesso telo incernierato. Balthasar Burkhard realizzò queste fotografie nel 1997 per un libro per bambini (“Klick!”, sagte die Kamera). E diede successivamente loro grandezza esponendole senza cornice, a un palmo da terra, ogni animale nella sua dimensione naturale. Ecco la belva esotica rivelarsi docile al comando della posa, piegata all’osservanza del ritratto. Ed ecco l’animale da cortile levitare in statura per via dell’artificio di monumentalità. La natura si annulla nella messa in scena. Tutto è segno, ma ambisce ad apparire realtà.
Ciò pare essere vero per l’opera intera di Balthasar Burkhard. Quello che vediamo nelle sue fotografie, quasi tutte rigorosamente in bianco e nero, è qualcosa che assomiglia all’originale, e che pure ne prende le distanze, discretamente, senza affettazioni. Tutto in Burkhard è anti-retorico. Si riconosce prontamente il leone e così la veduta aerea di una città o il piede viscoso di una lumaca o lo spettacolo tonico di un’onda gonfiata dal vento, ma della metropoli ciò che ci viene restituito è il suo astratto reticolato, la sua topografia (che si tratti di Tokyo o di Città del Messico o di Napoli lo sappiamo dalla didascalia), e della chiocciola una veduta così ravvicinata che sopra di essa si fa sinuosamente strada l’immagine di una vulva (Escargot, 1999), e dell’onda sì lo slancio del flutto, ma tutta la teatralità è come infranta da una cengia di acciaio che la spezza in due.
“Balthasar Burkhard. Dal documento alla fotografia monumentale” è una mostra che ha il grande merito di avere riunito, grazie allo sforzo congiunto di tre istituzioni (il Folkwang Museum di Essen, il Fotomuseum e Fotostiftung di Winterthur e il Museo d’arte della Svizzera italiana di Lugano, dove è in corso fino al 30 settembre nella sede del LAC), l’opera straordinaria di un autore, nato e morto a Berna (1944-2010), fornita di un fascino e una forza che si svelano lentamente. La mostra al museo di Lugano, accortamente allestita da Guido Comis, delinea, della carriera di Burkhard, la sua nutrita ricerca, i suoi tanti sfoghi. Per esempio, come successe che fu, e viene sempre ricordato, dal 1968, “fotografo di corte” alla corte di Harald Szeemann (così scrisse di lui il leggendario curatore in una lettera di referenze) durante gli anni del suo interregno alla Kunsthalle di Berna (1961-69) e anche dopo. Lo seguiva ovunque, e rese testimonianza delle mostre più gloriose: “When Attitudes Become Form” (Kunsthalle Bern, 1969), “Happening & Fluxus” (Kölnischer Kunstverein, 1970), documenta 5 (Kassel, 1972). Come fu poi attore, in un film che titolava Eiskalte Vögel (tradotto in “gelidi uccelli”, 1978) del regista Urs Egger: nella pellicola di 30 minuti si vede un giovane Burkhard a bordo di una BMW attraversare un paesaggio innevato e lamentarsi di un terribile raffreddore, e poi tentare di affettare un’anatra congelata con una sega. Come fu fotografo di architettura (per lo studio bernese Atelier 5) e di campagne pubblicitarie (sugli stabilimenti Ricola di Herzog & de Meuron a Leufen o per la ditta USM). Come fu, a partire dagli anni Ottanta, soprattutto artista (al LAC le sue fotografie di irsute gambe maschili stanno accanto alle tele di Niele Toroni nello stesso modo in cui entrambe le serie venero esposte nel 1984 al Musée Rath di Ginevra).
Si ricorda il suo apprendistato a Berna, nel 1961, con Kurt Blum. Nella camera oscura di Blum, Burkhard impara i fondamenti della tecnica dell’ingrandimento, dello sviluppo e fissaggio di pellicole lunghe un metro per via di un movimento rotatorio in vasche dette “bare”. Da qui verrà la sua opera più compiuta, la fotografia in scala uno a uno o sovradimensionata: i suoi corpi oversize, il monumentale Der Körper (1983, un nudo femminile abbisciato a terra per oltre tredici metri, realizzato a partire da quattro diversi scatti frontali che ne azzerano la prospettiva, facendone non più un corpo, ma un paesaggio), i giganteschi piedi (Füße, 1980), ginocchio (Das Knie, 1983), braccio (Der Arm, 1983). In questa dilatazione, il corpo nudo non perde niente, proprio niente della sua intimità. Come pure verranno le foto stampate su tela, e mollemente appese al muro con due pinze, delle vedute più semplici e a portata di mano – un letto sfatto, un foglio sul pavimento, il sedile posteriore di un’automobile.
A inizio mostra sono esposte le fotografie, messe in un libretto a fisarmonica, di Klassenzimmer (Aula di scuola, 1962) – un soggetto a Burkhard particolarmente caro, come riporta un virgolettato pubblicato nel bel catalogo della mostra edito da Steidl: “il mio primo contatto con la fotografia risale alla seconda elementare, quando sono stato immortalato con i miei compagni da un fotografo professionista. Quello stesso anno, mio padre mi diede una macchina fotografica da portare a una gita, raccomandandosi di evitare i pali del telefono” (anni dopo, professore alla University of Illinois di Chicago, il fotografo confesserà ai suoi studenti: “I pali non andavano eliminati, suddividono lo spazio e i fili trasmettono l’impressione di ampiezza e profondità). E quelle di Auf der Alp (Sull’Alpe, 1963): qui Burkhard tira tutto il senso di un tema sublime, molto svizzero, le Alpi, da una semplice mandria al pascolo smarrita nella nebbia, neutralizzandone tutta la loquela, aprendo a più vaste prospettive.
La mostra dà testimonianza degli omaggi a Gustave Courbet, ai genitali femminili de L’origine du monde del 1866 (L’origine, 1988) e al mare grosso di Étretat, in Normandia, che ispirò tanti suoi quadri (La Vague, Normandie, 1995). A un anno dalla morte, Burkhard avvicina il colore alle sue fotografie – fotografie di fiori, riprodotti esageratamente grandi (Papaveri, Rose, Gigli, tutti 2009). Le luci si spengono, si resta al buio. I fiori, un po’ afflosciati e dai colori puri e violenti – viola, rosso, bianco – stanno su fondi nero pece. Il tono è quello di una gravità assiderata. Ecco un soggetto familiare di ovvia accettazione e buona presa – una rosa o un giglio – arrivarci nuovamente per vie estranee. Ed ecco nuovamente la liscia realtà farsi soggetto e pretesto di più complessi giri di segni e di senso.
- Titolo mostra:
- Balthasar Burkhard. Dal documento alla fotografia monumentale
- Date di apertura:
- 10 giugno – 30 settembre 2018
- Sede:
- Museo d’arte della Svizzera italiana (MASILugano)
- Indirizzo:
- piazza Bernardino Luini 6, Lugano
- Curatore:
- Guido Comis