Che cosa significa parlare di ecologia nella contemporaneità? Seguendo l’impalcatura teorica che sta alla base della Biennale di Yinchuan il pensiero ecologista dovrebbe essere qualcosa di molto più articolato rispetto alle immagini un po’ retoriche a cui siamo abituati. Il concetto, per il curatore Marco Scotini e il suo team, è ben più complesso e quando se ne parla non si può far riferimento ai soli e soliti temi ambientali, di cambiamento climatico piuttosto che di esaurimento delle risorse naturali. Tentare di restituire un’immagine dell’ecologia contemporanea significa invece dare conto anche di una biodiversità sociale e culturale, un’altra ricchezza che andrebbe preservata, come afferma lo stesso Scotini: “Così come mi preoccupo dell’estinzione di una specie vegetale, dovrebbe preoccuparmi anche la scomparsa di un gruppo etnico”. Ogni luogo, infatti, è composto da un ecosistema sfaccettato all’interno del quale oltre a piante e animali (non per niente questa Biennale include l’ornitologia), rientrano anche le lingue e i saperi. Allo stesso modo, bisogna tenere conto del tempo che passa, ma anche essere consapevoli, come insegna Foucault, del fatto che la nostra lettura del passato non è scevra dalle convinzioni del presente.
Yinchuan è il capoluogo della regione di Ningxia, nella Cina nord orientale, e si trova sul percorso della via della seta, sotto al Deserto di Gobi in un’area di confine (e di conseguenza più ricca di diversità) in cui convivono alcune minoranze e dove agricoltura e nomadismo s’incrociano. Il preludio all’esposizione dichiara la matrice culturale dello sguardo non universalistico che ha prodotto questa mostra, nell’ottica di un relativismo antropologico che, rivelando appunto l’origine del punto di vista (in questo caso occidentale), dà già anche un’indicazione di lettura.
L’antica rotta della via della seta è stata battuta dagli artisti fin dal passato, lo testimoniano le opere esposte in quella che può essere definita una premessa alla Biennale: il dipinto di Giuseppe Castiglione (1688-1766), gesuita missionario divenuto artista di corte di tre imperatori cinesi; ma anche gli scatti di Felice Beato (1832-1909) fotografo che accompagnò le forze militari inglesi in Cina nel 1860 o ancora il film di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, realizzato con filmati originali che mostrano le immagini dei primi viaggi turistici in oriente delle élite europee, che hanno contribuito a creare l’alterità di questi luoghi. Questo percorso diventa così la strada maestra seguita dai curatori nella selezione di opere e artisti, oltre a divenire sul piano interpretativo, un inevitabile rimando al progetto della nuova via della seta (OBOR) e alle politiche economiche cinesi del presente.
Entrati nell’immaginario del viaggio, dello spostamento e dell’incontro di culture e colture ci si può occupare di nomadismo, come fa per esempio il lavoro di Enkhbold Togmidshiirev con le sue piccole tende mobili (yurt) che viaggiano modificandosi insieme a chi le abita. Al contrario, la stanzialità indotta dall’agricoltura è ciò di cui ci parla la casa ricostruita da Marjetica Potrc in Yinchuan: Rural House, un’opera che prosegue la serie di studi sulle abitazioni rurali analizzate dall’artista e che, in questo caso, mette in evidenza la sostenibilità del sistema locale di approvvigionamento dell’acqua. Non allontanandosi troppo dalla tematica, il gazebo costruito da Li Juchuan offre ai visitatori uno sguardo a volo d’uccello sul limitrofo territorio di Xihaigu, afflitto da una grave carenza idrica.
Tra natura e architettura si muove About Non-Conscious Architecture (1972-1973) dell’italiano Gianni Pettena, del quale è qui esposta una selezione dedicata al deserto roccioso, sulle possibilità inconsce dello spazio e delle origini dell’architettura. A proposito di stanzialità e sistemi complessi, non si può – in un discorso stratificato come questo – non occuparsi della gentrificazione dei centri urbani. Così Nazgol Ansarinia, artista iraniana, porta in mostra la serie Fabrications del 2013 sugli edifici residenziali di Teheran, sui quali dal 2004 vengono realizzati grandi murali che raffigurano luoghi dal sapore rurale e che l’artista ricostruisce tridimensionalmente nei suoi modelli architettonici. Allargando le maglie di questa ragnatela che va dall’abitazione (mobile o immobile) al centro urbano, si arriva alla rete delle città connesse dalle grandi arterie di comunicazione come l’antica e la nuova via della seta che hanno contribuito a definire l’Eurasia, tematica affrontata da Kyong Park nell’opera Imaging New Eurasia (2015-2018).
Ma questa Biennale affronta, attraverso le altre sezioni da cui è composta, anche temi come natura e umanità, concetti che, in un’ottica di rapporti di produzione e risorse, non possono essere disgiunti. E, ancora, il rapporto tra minoranze e molteplicità, che implica anche una riflessione sull’idea di comunità. Per arrivare fino alla trasmissione del sapere attraverso la lingua (orale o scritta) nell’ambito della quale sono esposti lo spazio-struttura di Nils Norman, che è una libreria tematica oltre che uno spazio per il gioco, e la libreria-scultura di Massimo Bartolini che ospita manuali tecnici cinesi di scarto.
- Titolo:
- Starting from the Desert – Ecologies on the Edge
- Date di apertura:
- 9 giugno – 19 settembre 2018
- Sede:
- MOCA Yinchuan, China
- Evento:
- Yinchuan Biennale 2018
- Curatore:
- Marco Scotini
- Team curatoriale:
- Andris Brinkmanis, Paolo Caffoni, Zasha Colah, Lu Xinghua