Le numerose irregolarità: Katharina Grosse e Tatiana Trouvé a Roma

A Villa Medici, la pittura multidimensionale di Katharina Grosse e i mondi fragili di Tatiana Trouvé mostrano i modi opposti delle due artiste d'intendere l'architettura.

Katharina Grosse, Villa Medici

Katharina Grosse è performativa e d’azione, Tatiana Trouvé celebrale e sensuale. Entrambe lavorano sull’architettura, ma in maniera completamente opposta.

Grosse ha rivoluzionato il modo di fare e di pensare la pittura nello spazio. Sceglie come campo di ricerca il colore, il lato più irrazionale, indefinibile e instabile dell’opera d’arte, ma anche il più libero e aperto al cambiamento. La sua pittura rompe, attraversa, annulla ogni confine invadendo tutto ciò che incontra. Tramite l’uso di una spray gun espande e potenzia il proprio corpo per affrontare vaste e complesse superfici. Il suo irruento colorismo, ridefinisce ogni scenario offrendo alla pittura una nuova possibilità di esistere nella vita quotidiana di ciascuno.

Nel salone principale di Villa Medici ha portato un grande albero proveniente dal giardino; un immenso pino secolare piantato da Ingres nell’Ottocento quando era direttore dell’Accademia e oggi reciso perché pericolante. Il colosso è stato fatto a pezzi e adagiato nella cordonata medicea dove un flusso di colore acido arriva dall’alto della scalinata come un fiume in piena e si schianta sulla scena. La possente pira di legni viene travolta da una cangiante lingua policroma che si srotola attraverso un tessuto mosso in mille pieghe.

“La pittura non è tridimensionale, ma multidimensionale”, spiega Grosse, “non è misurabile e non ha una struttura consequenziale, un inizio e una fine come un libro o un pezzo di musica. Quando dipingo, mi trovo a comprimere strati di pittura. Disseminando nelle mie installazioni grandi tessuti articolati in infinite pieghe, fornisco al visitatore la possibilità fisica di entrare nello spazio condensato della pittura, di averne reale esperienza corporea”.

In un’altra sala è esposta Untitled del 2013, la prima opera in situ mai realizzata dall’artista. Si tratta di un angolo verde dipinto nell’intersezione tra i muri e il soffitto di una stanza, poi fotografato e riprodotto su una grande tela di seta. L’intervento racconta molto bene come, attraverso la pittura, la tedesca intacchi e sovverta l’architettura. Il colore s’incunea proprio dove le linee definiscono il disegno e la volumetria dell’edificio. Più lo spazio è rigoroso e più la Grosse lo contrasta, proponendo un modo diverso di guardarlo.

“La struttura dello spazio e la pittura hanno regole molto diverse: l’uno può essere misurato, mentre l’altra non ha questa materialità, le sue proporzioni esistono solo nella nostra immaginazione. È proprio l’incontro dell’immaginazione con il razionale a interessarmi, è come avere il caldo e il freddo allo stesso tempo. Questa dinamica è molto simile alla nostra condizione di vita: fantastichiamo e nello stesso tempo magari stiamo pelando una patata. Il fatto che la superfice del dipinto contraddica quella dello spazio è il mio modo per raccontare questo paradosso esistenziale”.

Poi, arriva Tatiana Trouvé: sofisticata, riflessiva e lenta nella sua pratica. Il suo lavoro è un continuo rimando a storie e vissuti. Si muove in una dimensione incerta tra passato e presente, realtà e possibilità, stasi e azione. Il ragionato disegno è per lei favorito strumento d’indagine. Le sue sculture e installazioni sembrano macchine del tempo, dispositivi misteriosi che ci portano insieme qui e altrove. Nata in Italia, vive in Francia ed è cresciuta negli anni formativi in Senegal. Il suo lavoro è profondamente legato allo storytelling africano, una cultura non scritta ma orale che si tramanda di generazione in generazione dove il racconto ha un ruolo essenziale. Dall’Africa ha ereditato uno strano rapporto con la magia: i suoi lavori sono universi al limite del reale, scivolano in una dimensione altra che non si conosce, fantomatica, quasi inquietante. Anche la scelta dei materiali sottolinea questa ambiguità: sculture che sembrano morbide e invece sono dure, oggetti apparentemente domestici che se toccati basculano portandoci in territori sconosciuti.

“C’è sempre un utilizzo di elementi poveri nel mio lavoro”, racconta, “sono importanti nell’economia dell’opera, ma anche in generale nella società. Il cartone per esempio ha delle proprietà incredibili: isola dal freddo, è leggero, è trasportabile e si ricicla. Tra vari lavori, qui alla villa ho portato delle capanne in bronzo che riproducono calchi di costruzioni in cartone. Mondi fragili e di passaggio, spazi in cui l’interno è sempre a confronto con l’esterno, architetture povere che si chiudono male, dove spesso entrano acqua e aria. I tetti sono coperti da piante cosmiche: antiche carte di migrazione, filogenetiche e altre che annunciano la fine del mondo fino alle Lignes d’erre di Fernand Deligny che studiano le traiettorie dei bambini autistici in movimento. Volevo dare l’impressione della precarietà e allo stesso tempo creare dei modelli architettonici sui quali incidere la storia del mondo e dell’universo. Sono luoghi che non sono fatti per resistere al mondo, ma per confrontarsi con esso”.

Nella manica medicea si susseguono invece una serie di sculture chiamate Les Indéfinis. Sono riproduzioni di enormi casse realizzate in vetro che filtrano la visione delle opere un tempo contenute. Come possenti membrane, le grandi lastre isolano l’opera in una zona neutra, rimandando ad un tempo di esistenza ovattato e non identificabile. Si tratta di lavori nati dalla contrarietà dell’artista verso la sparizione di sue opere in collezioni private e da lì mai più uscite. Trouvé sceglie di copiare i suoi stessi lavori per dargli una seconda vita. Ma mentre li riproduce ad un certo punto si annoia. Così le sculture vivono un ulteriore grado di trasformazione e assumono una forma ancora nuova, autonoma, indefinita.

La mostra è completata infine da una serie di scritti, riflessioni che le due artiste accompagnano ai loro lavori. In uno di questi, Trouvé cita Il Libro dell’inquietudine di Fernando Pessoa: “Perché è bella l’arte? Perché è inutile. Perché è brutta la vita perché è tutta fini propositi e intenzioni. Tutte le sue strade servono per andare da un punto all’altro. Magari vi fosse un percorso segnato da un punto da cui nessuno parte a una meta verso cui nessuno si dirige!” “Se le mie scarpe sono di bronzo”, commenta l’artista che spesso le dissemina nelle sue opere, “è forse perché mi permettono d’intraprendere questo tipo di cammino”.

Titolo mostra:
Le numerose irregolarità. Tatiana Trouvé & Katharina Grosse
Date di apertura:
2 febbraio – 29 aprile 2018
Sede:
Accademia di Francia – Villa Medici
Indirizzo:
viale Trinità dei Monti 1, Roma
Curatrice:
Chiara Parisi

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