“Sono andato a Beirut per la prima volta nel febbraio del 2013. Per il suo ruolo di città-crocevia, doveva essere la tappa iniziale di un lungo percorso di esplorazione dei paesi del Medio Oriente, ma non ho più smesso di tornarci. Ho compreso sin da subito che è un punto cruciale da cui osservare dinamiche che si sviluppano a livello globale.” Abbiamo incontrato Armando Perna (Reggio Calabria, 1981) a Polignano a Mare, nei pressi di Bari, città dove ha scelto di vivere e lavorare da poco più di un anno, dopo una lunga esperienza milanese. In questo momento è in corso, presso la Fondazione Pino Pascali, la personale “Dahiye: The Southern suburbs of Beirut”, promossa dal collettivo Planar, di cui egli stesso fa parte, e dedicata al suo lavoro di mappatura e ricerca fotografica della periferia sud della capitale libanese. La mostra mette in scena, attraverso una installazione site specific una piccola parte della complessa indagine visuale che Perna ha condotto nel corso degli ultimi anni, per cui è stato finalista nel 2014 del prestigioso Fotobookfestival Kassel Dummy Award.
“Questo lavoro è stato totalizzante, perché ho accompagnato il progetto fotografico con uno studio approfondito di saggi e pubblicazioni che continua tuttora. Ho iniziato con Beirut, Libano. Tra assassini, missionari e grands cafés, pubblicato nel 2008 dal giornalista Riccardo Cristiano, una prima guida importante per capire come Beirut fosse storicamente città cosmopolita, luogo di dialogo e al contempo contrasto tra identità religiose e comunitarie eterogenee. Un territorio urbano che conta circa 2 milioni di abitanti, tra cristiani, sunniti e sciiti, con una massiccia presenza di rifugiati palestinesi e siriani, specie a seguito dello scoppio del conflitto in Siria nel 2011. I miei riferimenti essenziali sono stati inoltre gli studi condotti da Samir Kassir, Mona Harb, Mona Fawaz ed Estella Carpi.”
Beirut è storicamente una città cosmopolita, un luogo di dialogo e al contempo contrasto tra identità religiose e comunitarie eterogenee.
Le fotografie sono state realizzate con un banco ottico e una fotocamera digitale nascosta nel retro di un’automobile. Con questo sistema precario e artigianale, l’autore è riuscito a eludere il sistema di controllo capillare che le forze militari parastatali di Hezbollah esercitano su Dahiye, impedendo di fatto qualsiasi tipo di ripresa fotografica e di lettura urbanistica delle aree abitate da palestinesi e siriani. “I primi mesi che ho trascorso a Beirut – ci racconta Perna – li ho dedicati alla conoscenza della città. Ne ho analizzato a fondo la fisionomia e il funzionamento, concentrandomi principalmente sui margini esterni. Ho sempre dormito in un ostello di Junieh, una località a nord di Beirut, abitata da cristiani maroniti. Da qui, mi muovevo ogni giorno per raggiungere l’estremo meridionale della città, Dahiye per l’appunto. Si tratta di due realtà separate e inconciliabili, agli antipodi geograficamente e culturalmente. Nessun abitante di Junieh andrebbe mai a Dahiye e viceversa. L’intento era quello di tracciare un quadro generale per poi focalizzarmi su zone e questioni specifiche, in modo che ogni tessera che raccoglievo, pian piano trovasse un posto in questo complesso mosaico urbano, fatto di enclave e frazionamenti. Come osservatore esterno sentivo l’urgenza di mettere in relazione le varie parti, prendendo Dahiye come punto di riferimento per confrontarmi con altre dinamiche, all’apparenza opposte, che si sviluppano nella città, ai danni dello spazio pubblico. Penso all’area del downtown, in cui il processo di ricostruzione postbellico viene appaltato per intero alla società privata Solidere, colmando di fatto un vuoto derivante dall’incapacità del governo centrale di gestire dinamiche così complesse.
I primi percorsi di esplorazione sono stati accompagnati da una lunga serie di scatti, realizzati con il banco ottico in un tempo lento e misurato. Sono momenti di riflessione che gli consentono di prendere confidenza con il paesaggio urbano. Ogni percorso avviene in solitaria, i viaggi a Beirut diventano per l’autore consuetudine e parte integrante della propria esistenza. Lo sguardo e la tecnica con il tempo si affinano per superare i limiti imposti da condizioni concrete ed estreme, con l’obiettivo di indagare il difficile rapporto tra autorità, strategie di controllo e spazio urbano. “Non volevo sacrificare la qualità delle immagini e alla fine, nonostante non avessi alcun controllo diretto della fotocamera occultata nell’automobile, ho constatato negli scatti un rigore formale e un’attenzione alla composizione del tutto inaspettati. La lunga pratica che ho messo in atto, mi ha permesso di documentare anche questa frangia della città in maniera efficace, con immagini compiute.”
La fotografia diventa azione nella realtà, una pratica di responsabilità che riafferma il ruolo civile dell’artista, sempre meno considerato dalle ultime generazioni. Un’urgenza che permea il lavoro di Armando fin dai passi iniziali nel mondo della fotografia, attraverso il confronto con uno dei suoi primi maestri, Giovanni Chiaramonte che gli parla “dell’artista come chi sa collocarsi sull’orlo del precipizio e guardare l’abisso, scorgendo ciò che altri non riescono a vedere. Solo così l’autore può, con la sua opera, scuotere le coscienze, affrontando e portando alla luce tematiche scomode o per lo più ignorate.”
Ci viene in mente Julio Cortázar che ne “Il giro del giorno in ottanta mondi” evoca la necessaria lateralità ed estraniamento del poeta. Qui Cortázar cita un brano tratto dalla poesia Alone di Edgar Allan Poe: “From childhood’s hour I have not been / As others were, – I have not seen / As others saw, – I could not bring, / My passions from a common spring. […] And all I lov’d, I lov’d alone.”