Dalia Chabarek and Camillo Boano: Possiamo iniziare da una tua autopresentazione…
Mona El Hallak: Sono nata a Beirut e ci sono sempre vissuta. Mi sono laureata in architettura all’American University di Beirut. Vivendo per un anno (il 1993) a Firenze per un Master ho capito l’importanza del patrimonio culturale nel determinare come una città viene vissuta. Mi sono laureata nel 1990, alla fine della guerra. Nel centro di Beirut, dopo la guerra, tutte quelle rovine erano davvero impressionanti.
Mentre ero a Firenze, nel 1993, Beirut era stata completamente distrutta, case fatte saltare con la dinamite. La società immobiliare Solidere l’avrebbe ricostruita badando pochissimo a quel che c’era prima.
La prima cosa che feci al mio ritorno fu solo andare a osservare di persona quel che avevo visto nei notiziari e letto sui giornali. Andai in piazza Bourj (ora ribattezzata Piazza dei Martiri) pensando che al centro ci fosse ancora il monumento, ma era tutto vuoto, dal teatro dell’Opera – che oggi è un megastore Virgin – giù fino al primo palazzo del quartiere di Gemmayze. Piazza Bourj, come me la ricordavo, era il cuore del centro di Beirut: divideva in due la città, era il simbolo di quel che era il centro di Beirut, di colpo era diventata un deserto, sabbia e pale meccaniche che andavano avanti e indietro appiattendola sempre di più.
Chabarek, Boano: Quali sono i tuoi ricordi più preziosi? Dai valore alla memoria della guerra? Oppure alla memoria di quel che c’era prima della guerra?
Mona El Hallak: No, la questione sta nella memoria della città in sé, prima, durante e dopo la guerra. Quando si parla di come si viveva prima della guerra si racconta di quel che teneva unite le persone allora e che oggi non c’è più, perché abbiamo subito una perdita collettiva, perché abbiamo attraversato la guerra e abbiamo materialmente vissuto il periodo del dopoguerra. Cercando di censire gli edifici del centro di Beirut ho scoperto che esisteva una memoria non solo degli edifici sotto l’aspetto tecnico e formale, ma anche di ciò che accadeva in quegli edifici, di come erano costruiti, delle persone che ci vivevano, dei giardini su cui si aprivano.
Chabarek, Boano: Cancellazione della memoria e della vita urbana? Un po’ come sono descritte nelle fotografie di Gabriele Basilico scattate a quell’epoca?
Mona El Hallak: Anche il monumento non c’era perché lo avevano portato via per restaurarlo. Perciò, di colpo, ho perso i riferimenti del centro di Beirut, della mia città. Non trovavo più piazza Bourj, e per un architetto, per un cittadino di Beirut, piazza Bourj era come piazza Navona per un romano. Ma improvvisamente l’intenzione della Solidere apparve chiarissima: piazza Bourj, da piazza che era, sarebbe diventata un viale, uno spazio vuoto pronto ad accogliere degli edifici con vista sul mare, il che significava un sacco di soldi. Al centro della città si fanno i soldi, ma al centro della città con la vista sul mare se ne fanno il doppio.
Chabarek, Boano: Dicci di Beit Beirut e della tua storia laggiù.
Mona El Hallak: Un giorno andai all’incrocio di Sodeco, guardai e vidi il palazzo giallo, il Barakat (progettato da Youssef Aftimus, con un ampliamento successivo di Fouad Kozah). Mi sembrò distrutto e danneggiato come tutti gli edifici che avevo visto lungo il percorso, ma questo aveva qualcosa di diverso. La cosa più importante, mentre stavo all’incrocio, era che, guardando l’edificio, attraverso di esso vedevo il cielo, come se dietro non ci fosse nulla. Comunque la luce in questo particolare edificio era molto più forte della distruzione. Volevo capire come mai questo edificio avesse dentro di sé il cielo. Il palazzo era stato intenzionalmente costruito per creare una trasparenza visiva e un rapporto con la città in qualunque posizione dell’edificio ci si trovasse. Una cosa rara, anche nelle costruzioni contemporanee.
Chabarek, Boano: E che cosa provasti entrando nell’edificio?
Mona El Hallak: Quando entrai in un ambiente ebbe inizio un’altra storia. Scoprii che c’era una postazione di cecchini e che nelle stanze avevano costruito un’architettura tutta loro. Non si erano limitati ad ammucchiare sacchi di sabbia ma avevano costruito veri e propri muri di cemento con sacchi di sabbia e creato degli ambienti per poter uccidere mirando in determinate direzioni. Avevano costruito altre pareti e nell’edificio erano ben difesi. Nell’interno c’era un’architettura bellica, un’architettura di morte. Quando mi ritrovai dietro quelle pareti mi sentii molto male, perché di colpo quel bel palazzo tutto luce e pietra dorata si trasformava in un luogo di morte. Era diventato un fortino dove qualcuno si era sistemato per uccidere. Quindi io stavo nella postazione del cecchino e guardavo la città attraverso i suoi occhi, invece di osservarla con gli occhi dell’architetto. La sovrapposizione sugli stessi assi visivi delle due prospettive, quella dell’architetto che ama la città e quella del cecchino che uccide, era profondamente impressionante. Contemporaneamente l’edificio era diviso a metà da questo vuoto tra Est e Ovest, tra i due appartamenti del primo piano, dove, scoprii poi, vivevano fianco a fianco un medico falangista e una famiglia palestinese: una situazione in cui si sovrapponevano a strati tutti i ricordi della guerra.
Al primo piano, accanto alla postazione dei cecchini, c’era un appartamento. Ci entrai e in tutte le stanze iniziarono a venir fuori cumuli di ricordi. Mucchi di carta e di giornali, biglietti da visita e fotografie, e appunti, e indumenti a centinaia, tutto quel che restava della vita della persona che ci viveva. Sulla porta ne scoprii il nome: dottor Nagib Chemali, odontoiatra. In questo primo appartamento del lato Est viveva il dottor Chemali, e per qualche motivo se ne andò, perché nel 1975 l’edificio divenne inabitabile. Se ne andò senza portare con sé niente, nulla di importante. Ovviamente avrà portato con sé tutto quel che aveva un valore materiale, ma lasciò nell’appartamento la sua vita. Ai miei piedi improvvisamente c’era tutta la memoria della città: un sacco di cose impressionante, naturalmente era un dentista e perciò trovai indumenti, schede, libri, archivi, farmaci e la sua poltrona da dentista. L’edificio non parlava solo della guerra e dei danni della guerra. Parlava anche della vita prima della guerra.
Chabarek, Boano: Che cosa accadde, dopo il giorno in cui entrasti nel palazzo Barakat?
Mona El Hallak: Dal 1994 al 1997 non feci che andare là e raccogliere tutti gli oggetti che trovavo, farli vedere agli amici, architetti, giornalisti, artisti, performer. Era il mio rifugio segreto di Beirut. Non avrei mai pensato che potesse essere distrutto, ma nel 1997 fu emessa un’autorizzazione alla demolizione. Fortunatamente il giorno stabilito per la demolizione ero là e cercai di fermarla. Era un vero e proprio monumento di guerra e conservava la storia di prima della guerra. Faceva parte del patrimonio culturale. Era ed è ancora qualcosa di unico.
Poi, dal 1997 al 2003, dedicai tutto il mio tempo a far sì che l’edificio sopravvivesse. Alla fine il Comune annunciò che l’edificio sarebbe rimasto come museo della memoria della città di Beirut. L’esproprio dell’edificio richiese cinque anni, dal 2003 al 2008. All’inizio dei lavori io speravo in un concorso d’architettura, ma alla fine il Comune decise che il concorso non ci sarebbe stato e assegnò invece l’incarico all’architetto Youssef Haidar. La sua idea di aggiungere protesi per le parti danneggiate del palazzo è troppo brutale e il modo in cui è stato eseguito ha aggiunto un tocco aggressivo all’edificio che non aveva nemmeno quando era segnato dalla guerra. I fori dei proiettili finti sulla facciata ridicolizzano quelli veri. La rampa che ha sostituito le belle scale a cielo aperto di Fouad Kozah ha dei supporti verticali pesanti che ostacolano la trasparenza del vecchio edificio e attraverso di essa verso la città alle spalle, una caratteristica unica che avrebbe dovuto essere mantenuta nella nuova aggiunta.
Chabarek, Boano: Qual è il tuo punto di vista su questo edificio?
Mona El Hallak: Ora questo edificio, come epidermide, come contenitore, è danneggiato dalla ristrutturazione ma contemporaneamente è così forte che si riesce a distinguere l’edificio originario, si vedono gli ampliamenti recenti e si può osservarne la differenza. Credo che il palazzo sia ancora abbastanza forte da rinnegare gli ampliamenti e rifiutarli dal punto di vista visivo. Ma per me quel che conta davvero è il contenuto dell’edificio. Come museo della memoria credo che intenda riunificare la città e ripristinarne il valore nei riguardi dei cittadini, in modo che chi ci entra impari qualcosa della città. Non è un monumento alla guerra civile – in qualche situazione succede, ma non in questo edificio – non si tratta di chi ha ucciso chi e quando, della cronologia della guerra. Il punto è che cosa è successo durante la guerra a un essere umano e a una città.
Chabarek, Boano: Senti di avere un rapporto personale con i cecchini, con il dottor Chemali e con la famiglia palestinese?
Mona El Hallak: Secondo me è un rapporto soprannaturale, quello con il palazzo e con i suoi inquilini, perché attraverso l’edificio ho scoperto le persone. Il dottor Chemali è diventato il dottor Chemali creato dall’edificio e non il dottor Chemali vero. So di avere abbastanza informazioni su di lui per trovare i suoi parenti e scoprire di più su di lui, ma questo è quanto l’edificio voleva che scoprissi di lui. C’era anche il piacere di lasciare che l’edificio mi dicesse quel che mi voleva dire, e mi ha raccontato la storia in vari modi. Sul pavimento trovai lettere che iniziavano con “Cara mamma” o “Caro papà”, firmate con nomi diversi come Edward, Joseph, Joan. Dicevano sempre “Salutaci le nostre sorelle Marie-Thérèse e Marguerite”. E così per dieci anni ho pensato che avesse cinque figli. Non so bene se voglio che sia una storia vera. Ho davvero bisogno di sapere chi sia il dottor Chemali? O il mio compito era mantenere in vita l’edificio? È importante sapere chi sia esattamente? Oppure è importante l’esperienza che mi ha fatto vivere attraverso il ritrovamento di queste carte e la costruzione della storia? Il dottor Chemali è stato un’ossessione per molto tempo, fino a che non trovai un documento che parlava della sua morte nel 1973. Sono i documenti della vita di una persona! Contemporaneamente mi ha fatto pensare molto sulle diverse dimensioni della guerra, perché fa pensare che la guerra non distrugge solo gli edifici, ma uccide le persone, le disperde, gli fa perdere la casa, gli affetti, i ricordi, gli oggetti, ma permette anche agli estranei di invadere la loro vita. Il lato brutale della guerra è che la nostra vita si ritrova completamente allo scoperto.
Di cecchini reali ne ho conosciuto uno solo, si chiamava George. Era così disturbato psicologicamente che viveva solo di notte e dormiva tutto il giorno. In un modo o nell’altro i cecchini sono delle vittime. E la loro storia va raccontata insieme con quella delle persone uccise, perché in fin dei conti erano giovani cui si diceva che uccidere avrebbe dato loro un potere. Che il palazzo Barakat fosse un nido di cecchini è importante perché è una delle manifestazioni della guerra tra le più crudeli e il punto da cui dovremmo davvero partire per fermare ogni ritorno di questa guerra.
Chabarek, Boano: Archivio, memoria, vita. Tutto in un unico edificio e in un’unica città. Che progetti hai, ora?
Mona El Hallak: Innanzi tutto il Beit Beirut. Ci vado ogni settimana. Incontro la gente e cerco di favorire l’attenzione ai contenuti culturali, prima di tutto i contenuti del museo, per cui il mio progetto più importante è questo. Quella di Dalieh [1] è un’iniziativa che sostengo quanto più posso. Negli ultimi mesi ho partecipato a dei convegni. Sono questi i due monumenti importanti. Contemporaneamente lavoro con il ministero della Cultura per fermare la demolizione dei vecchi edifici. Lavoro con l’Arab Centre of Architecture per diffondere la conoscenza dell’architettura moderna di Beirut.
Chabarek, Boano: Mona, qual è la tua speranza per Beirut?
Mona El Hallak: Spero di essere ancora viva per vedere Beit Beirut funzionare nel modo che immagino, e per vedere che tutti i begli edifici e tutti le residue zone di verde e di vita reale di Beirut ci sono ancora, che non sono scomparsi. La città si sta trasformando in un territorio a completa disposizione degli immobiliaristi che rispecchiano gli interessi privati di un’élite ristretta, trascurando il bene comune, gli spazi pubblici e il patrimonio culturale, e mi pare che la città stia solo creando altri problemi invece che risolvere quelli esistenti.
[1] Dalieh è una penisola, l’ultima delle oasi naturalistiche ed ecologiche della costa di Beirut, aperta al pubblico come spazio comune per i cittadini. Domina il caratteristico Sakhret el-Raouche (“Scoglio del piccione”) ed è attualmente minacciata dall’urbanizzazione. La “Campagna civica per la tutela del Dalieh di Raouche” (CCPDR Civil Campaign to Protect the Dalieh of Raouche) è stata lanciata nel marzo 2013 per garantire la tutela e la valorizzazione di Dalieh. Maggiori informazioni su dalieh.org.