Days are Dogs: Camille Henrot al Palais de Tokyo

Dopo Jeremy Deller, Philippe Parreno, Ugo Rondinone e Tino Sehgal, tocca alla francese Camille Henrot allestire una mostra nei grandi spazi parigini del Palais de Tokyo, con le proprie opere e quelle di artisti a lei affini. Ma l’accumulo di installazioni conosciute e film già visti rimanda a una retrospettiva, più che all’idea di “carta bianca”.

Vista della mostra “Days are Dogs”, Carte Blanche to Camille Henrot, Palais de Tokyo. Photo Aurélien Mole

L’imponente mostra di Camille Henrot al Palais de Tokyo è puntuale e precisa come la scansione settimanale a cui il titolo (“Days are Dogs”) rimanda. Henrot utilizza l’invenzione totalmente fittizia e umana dei nomi della settimana, con le loro rispettive origini mitologiche e astronomiche. Una stanza, e un capitolo, per ciascuno dei giorni si susseguono in perfetto sincronismo, ritmando l’intero percorso espositivo e facendo pensare a qualcosa di più di un’escamotage narrativo.

Un trompe-l’œil marmorizzato accoglie il pubblico all’ingresso del Palais di cui l’artista ha ridefinito il tono in un’operazione di preciso maquillage. Riesce difficile, tuttavia, chiamarlo intervento site-specific. Lo spazio museale, al quale il suo lavoro sembra ora essere strettamente connesso, elimina molte delle specificità dell’edificio, regalandogli però una luce inedita nell’allestimento sofisticato di Cécile Degos. Camille Henrot si è avvinghiata al luogo con una sorta di perverso total look, dove ogni opera sembra in crescita artificiale ed esponenziale.

Vista della mostra “Days are Dogs”, Carte Blanche to Camille Henrot, Palais de Tokyo. Photo Aurélien Mole. Courtesy of the artist and Metro Pictures (New York); kamel mennour (Paris/London); Galerie König (Berlin) © ADAGP, Paris 2017
Vista della mostra “Days are Dogs”, Carte Blanche to Camille Henrot, Palais de Tokyo. Photo Aurélien Mole. Courtesy of the artist and Metro Pictures (New York); kamel mennour (Paris/London); Galerie König (Berlin) © ADAGP, Paris 2017

La carta bianca alla trentanovenne artista francese è solo il più recente dei periodici inviti di Jean de Loisy, presidente del Palais de Tokyo, ad artisti conosciuti, che ne denotano un carnet di contatti e collaborazioni estremamente ramificati nel panorama internazionale e il gusto per la sperimentazione. La formula vincente consiste nell’allargare l’orizzonte di una semplice retrospettiva e davvero memorabili restano le edizioni passate: con la regia di Jeremy Deller, Philippe Parreno, Ugo Rondinone e Tino Sehgal; magari imperfette, ma più sicure negli intenti.

Nel caso di Camille Henrot a saltare agli occhi è la forma drammatica della sua relazione ombelicale al luogo: qui è cominciato il suo percorso artistico e ha raggiunto visibilità e mercato; e sempre qui Henrot ha deciso ora di autocelebrarsi.

Risale al 2005 la data della sua prima personale nei moduli che il Palais dedica agli artisti  emergenti. Poi, Camille Henrot ha ottenuto il Leone d’Argento alla Biennale di Venezia del 2013, con il suo film Grosse Fatigue e ha avuto modo di distillare e mettere a punto in spazi più contenuti un buon numero di risultati e buoni prodotti. Sulla grande scala di questo spazio, invece, la sua ricerca artistica fatica a reiterarsi e corre il rischio di divenire stucchevole. Gli artisti che ha invitato sembrano servirle solo da snodo. Con l’eccezione di Maria Loboda che regala alla mostra una splendida serie di foto, Young satyr turning to look at his tail (“giovane satiro che si gira per osservare la sua coda”). O di Nancy Lupo con le sue sculture dalla forza emozionale e latente che non le lascia solo percepire e relegare al ruolo di semplici panche, in una sala di acquerelli di grandi dimensioni di Camille Henrot.

Proprio al Palais de Tokyo, nell’ambito della Triennale di Parigi del 2012, il linguaggio sofisticato di Camille Henrot venne particolarmente osannato dalla critica, in una mostra dispersiva e difficile curata da Okwui Enwezor. Lo spazio concettuale dei suoi Ikebana, È possibile essere rivoluzionari e amare i fiori? aprivano quella mostra e le regalarono l’etichetta di artista romantico-concettuale. Oggi li ritroviamo in queste stesse sale depotenziati dall’insufficienza di urgenza che li aveva creati. L’artista aveva dovuto sopperire e non solo concettualmente al desiderio di ritrovare la sua biblioteca di libri francesi dopo essersi trasferita a New York. Quando s’inventò questo gioco di corrispondenze tra fiori e narrativa aveva la freschezza del lavoro degli esordi. Ora, definitivamente stratificata, la sua opera sembra svilupparsi come in una serra. Non l’aiutano più vetrate, soffitti e luci del giardino d’inverno di questo che somiglia ora a uno spazio semiprivato, piuttosto che a un’istituzione pubblica parigina. Camille Henrot è recidiva e ripropone vecchie installazioni.

Anche The Pale Fox, già vista al Salon Béton nel 2014, sembra a distanza di qualche anno un esercizio narcisistico decisamente pericoloso. E per un pubblico d’arte contemporanea avvertito, che consuma e visita mostre anche su blog e social media, diventa inevitabile accodarsi al giudizio non sussurrato di tanti critici parigini. L’accumulo d’installazioni conosciute e film già visti rima più con la parola retrospettiva che con “carta bianca”.

Pagina dopo pagina, il calendario settimanale diventa un triste quaderno di appunti, dove annotare il numero di produzioni conosciute e il loro eventuale riutilizzo. Le nuove singole installazioni, come la grande palestra creata sul percorso, sintetizza l’aspetto marziale del  martedì e accorcia le distanze di percorrenza negli immensi spazi del Palais de Tokyo. Una grande sala di bronzi sortisce un effetto spettrale. Quasi una parodia cimiteriale del Musée d’Orsay con parterre e balaustra. È un gioco al masssacro all’insegna dell’autostoricizzazione, che finisce per annullare tutti i sani principi di organizzazione che ci hanno fatto amare Camille Henrot.

Vista della mostra “Days are Dogs”, Carte Blanche to Camille Henrot, Palais de Tokyo. Photo Aurélien Mole.
Fig.11 Vista della mostra “Days are Dogs”, Carte Blanche to Camille Henrot, Palais de Tokyo. Photo Aurélien Mole. Courtesy of the artist and Metro Pictures (New York); kamel mennour (Paris/London); Galerie König (Berlin) © ADAGP, Paris 2017

Scomparso il cocktail di antropologia e passione maniacale per archivi di ogni genere o le genealogie che l’hanno incoronata come una delle artiste più originali degli ultimi anni, a dominare la mostra è il nonsense surrealista delle poche nuove produzioni. Se in The Pale Fox la cosmogonia del popolo Dogon sovraintendeva e coincideva con l’organizzazione del nostro presente informatizzato, qui la scelta della narrativa che governa il funzionamento di una mostra celibe, riassembla solo un collage multimediale. A discapito del delicato lavoro umano di dominare e rappresentare il tempo nella sua banalità quotidiana, anche lo stratagemma delle agende con pagine settimanali fallisce.

Camille Henrot sembra riordinare una scrivania, sulla quale si allineano i fogli di reclutamento degli artisti a cui ha proposto un intervento ad interim. Le opere-collage di Samara Scott impediscono di uscire dal percorso e la splendida poesia di Jacob Bromberg prova a fornire una scala al progetto ciclopico, decisamente monoculare. L’anelito depressivo di David Horwitz è la più riuscita delle ossessioni virtuali dell’artista-curatrice. Da perfetta conoscitrice dei luoghi e nei panni della padrona di casa, non resta all’artista francese altro che l’indubbia capacità di gestire ciò che ha sempre saputo fare: confezionare sublimi decorazioni floreali e organizzare sedute di home cinema. I suoi film Deep Inside e Grosse Fatigue sono entrati nella storia recente del cinema d’artista. L’invito a prendersi cura di sé, nell’enorme palestra del piano terra, però non incute nessun terrore marziale. Noi avremmo preferito vedere sviluppati l’amore per i purosangue o la passione per i diamanti della moglie dell’Aga Khan all’asta. Il loro abbinamento a un bellissimo erbario resta un’opera magnifica. La mega produzione è però la copia anastatica di Una Settimana di Bontà di Max Ernst, che avrebbe potuto essere un’agenda più efficace, visto che la stessa iconografia vi era già riassunta dal 1934.

© riproduzione riservata

Titolo mostra:
Days are Dogs. Carte Blanche to Camille Henrot
Date di apertura:
18 October 2017 – 7 January 2018
Curatore:
Daria de Beauvais
Sede:
Palais de Tokyo
Indirizzo:
13, avenue du Président Wilson, Parigi

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