
Il diorama inteso come tecnica è decisamente un materiale ad alto contenuto ideologico. La mostra “Dioramas”, più panoramica che “dioramica”, che il Palais de Tokyo gli dedica ne ripercorre le tappe con una minuzia puntigliosa. Nella parte introduttiva seduce e immerge nella sua storia dagli inizi nel XVIII secolo fino a oggi e in ogni sala la capacità catartica di queste splendide vetrine, meccanismi di presentazione celebrate poi nei Passages parigini e nell’incedere del voyerismo del flâneur sembrano una realtà aumentata con relativa scoperta di trucchi, effetti e successive invenzioni da teatro di automi e marionette. Siano esse scenografiche o puramente contemplative. È un universo di tecnici delle luci, scultori, botanici, modellisti, pittori, carpentieri ma soprattutto di sceneggiatori. La finzione e la capacità di raccontare storie sono centrali nella strategia del diorama.

Tuttavia l’influenza sulle strategie museali ed espositive dell’arte contemporanea potrebbe anche eclissarsi se la sola idea alla base della mostra fosse quella di riassumerli, i diorami, nella pura critica all’idea del mostrare. Peccato che il punto di arrivo dei diorami contemporanei sia quello descritto con meno attenzione, in questa pur bella esposizione.
C’è sicuramente un assommarsi della quantità dei dispositivi ed effetti di realtà che, dal feticcio all’immagine, ne ridefiniscono il risultato storiografico. La mostra è splendida sul piano della ricerca ma si inabissa quando i suoi effimeri paesaggi lambiscono il territorio d’approdo della contemporaneità.
Concretamente il diorama/scatolone di Kiefer è decisamente inferiore alla sua capacità di coinvolgimento dello spettatore, ma è più che naturale che il romanticismo di tutta la sua pittura “dioramatica” venga celebrata nell’imprecisione della grande Hall of Dioramas, che chiude la mostra. L’iperrealismo di Duane Hanson, o le immagini proiettate della scena finale del film The Truman Show chiudono un gioco di campionamenti successivi, alcuni davvero malamente commissionati al punto da depotenziare gli artisti che si suppone avessero fatto del diorama il loro marchio di fabbrica.
È il caso di Mark Dion di cui è innegabile l’apporto all’idea di creazione di archivi sensibili e grande esploratore delle forme museali e della retorica dei dispositivi museali. Qui con il suo Paris Streetscape si prodiga in un’immagine decisamente trash dell’idea stessa dell’esserci qui; ed è proprio perché la mostra celebra esclusivamente l’aspetto illusionistico della sua ricerca. Se tutta la prima parte che include presepi napoletani, estasi di Maddalene penitenti come quella di Caterina de Julianis del 1717 e prelievi da musei etnografici è davvero imperdibile – tanta è la nostalgia per il vecchio Musée de l’Homme – il team curatoriale è intento a tracciare solo una storia materiale del diorama. Lo fa attraverso splendidi esempi, come lo è l’estetica del tardo Ottocento con le tassidermie di Rowland Ward o Carl Akeley. Si entra prepotentemente nel gioco conflittuale dell’antitesi tra realtà e finzione. Ancora meglio nell’idea di forgiare attraverso il falso, il simulacro dell’idea dell’autenticità. Anche solo un mozzicone dell’ultima forzatura di Damien Hirst a Palazzo Grassi sarebbe stata più esplicativa.
Ecco quindi riapparire la nozione di fantasmagoria di cui sopra: è la rimozione del lavoro, a rendere intelligibile il contenuto fantasmagorico del gesto artistico nella sua relazione con il capitalismo avanzato. La splendida serie fotografica di Richard Barnes dedicata alla manutenzione di grandi e piccoli diorami di tutto il mondo così come l’elegantissimo lavoro di Mathieu Mercier, un senza titolo nel quale una coppia di axolotis nuota elegantemente in un acquario minimalista ne sono l’esempio più concreto. È solo in un momento preciso e nell’occhio, addomesticato, del pubblico che l’epifania si realizza.