Il covare uova di Abraham Poincheval, come il tentativo di fare salire le scale a un gruppo di sedie di Dorian Gaudin si presentano come la riedizione metafisica di processi conosciuti. Non tanto il gesto politico delle macchine celibi di memoria duchampiana ma la riattivazione di un macchinoso atto del vedere. Tutto coadiuvato dall’ausilio di tecnologie sovradimensionate e da sciamanici atti di fede. Una forzata riedizione del ritorno al Dadaismo, pieno però di declinazioni semantiche e ideologiche che, a un secolo di distanza, diventano tecniche rassicuranti, epurate come sono da ogni spavalda tentazione d’avanguardia. Senza particolari crucci l’oggetto domina gli innumerevoli capitoli di una vasta esposizione nella quale proprio come nelle fiere campionarie del moderno è il culto della macchina a reintrodurre omelie o mantra surrealisti.
La posizione sembra assunta consapevolmente nell’installazione di Emmanuelle Lainé Where the rubber of our selves meets the road of the wider world che pur essendo un fermo immagine della sua ricerca sull’architettura come protesi mentale non può non richiamare altri incontri fortuiti come quello su un tavolo di dissezione di una macchina da cucire e di un ombrello!
Visto che l’atmosfera complessiva è decisamente ispirata a una teologia dell’oggetto, e davvero Lautremont sembra il cadavere curatoriale nell’armadio, ecco sequenze di titoli via via più perfetti. “Sous le regard de machines pleines d’amour et de grâce” è quello scelto da un brevissimo testo poetico di Richard Brautigan e distribuito nelle strade di San Francisco nel 1967.
Nell’idea di spettacolarità e di mezzi produttivi assolutamente necessari per sottolineare concetti davvero semplici si impegnano i due artisti che beneficiano sostegno del Sam Art Projects: Taro Izumi e Mel O’Callaghan. Sembrerebbero fornire alla stagione un cuore pulsante, un’anima alla quale credere per definire la validità di tutto il progetto. Taro Izumi sceglie la strada della parodia e ha dalla sua la cultura giapponese nella quale, come nei film poco riusciti di Takeshi Kitano (e sono davvero pochi), è lo humour che viene a perturbare le nostre abitudini e definisce la scala di turbolenza della realtà. Tutto si mescola, performance, video, scultura nonsense con l’idea di non uscire dallo spazio a noi familiare, e soprattutto non da quello di una mostra.
Mel O’Callaghan sceglie invece l’idea del set, quasi il contemporaneo avesse già dimenticato i rituali e o le imprese di Matthew Barney. L’artista australiana si appropria dei perigliosi gesti dei raccoglitori di nidi d’uccello del Nord Est del Borneo. Se il corpo è il luogo possibile della rivelazione e della trascendenza, la sua installazione ricorda la scena epurata di tanta opera lirica contemporanea intrisa di estetismo stagionale intento a far sopravvivere musica atemporale. Gesti e pratiche più semplici come quelle di Emmanuel Saulnier in Black Dancing riconciliano con un disegno dello spazio decisamente più centrato sulla scala di questo luogo. In fondo ciò che manca alla mostra e a tanti di questi lavori è una corrispondenza poetica tra pensiero e situazione. La produzione di oggetti finisce per cancellare la magnifica presenza del silenzio delle cose. Un piccolo Morandi in una qualsiasi sala di un museo ci ha già confrontato con gli stessi problemi in formati decisamente più accessibili.