“10, 100, 1.000 Vietnam” fu uno degli slogan più duri dei movimenti di protesta degli anni Settanta. Cortocircuitava l’idea di resistenza a ogni disegno imperialista e profetizzava l’inasprimento virale della guerra in Indocina, dilatandolo nei conflitti sociali in ogni angolo del pianeta.
Danh Vo, artista vietnamita naturalizzato danese è nato nel 1974. A lui il Musée d’art Moderne di Parigi dedica un’incredibile mostra, curata da Angeline Scherf: un ampio spazio di cui l’artista sembra essersi impossessato, con la stessa volontà di moltiplicazione, dipanando una strategia personalissima di micro-conflitto visivi e letterari. Non solo. Quell’energia sembra essersi trasformata in una tecnica altamente personale, reinventando la grammatica della guerriglia poverista: un’operazione difficile, che raramente riesce, esclusivamente in caso di grande poesia civile.

L’artista ha una storia personale segnata dallo stesso terribile destino della sua regione e, come l’Indocina, Danh Vo carica le sue opere di riscritture che metabolizzano la negatività della tragedia umana. Sono racconti drammatici che riaffiorano continuamente nelle sale d’esposizione e, anche se non più d’attualità, rimangono importanti per decodificare le premesse creative del suo lavoro.
Danh Vo lasciò il Vietnam con il padre, su una barca salvata da un peschereccio danese, che li graziò entrambi dagli orrori della real-politik degli anni Settanta. Ecco perché tutti i suoi pezzi, sapientemente installati con rara pertinenza semantica, sembrano parlare ancora di scottante attualità.

Uno dei lavori in mostra, per esempio, sembra parlare dello smembramento del welfare dei Paesi nordici. Anche risale al 2005, If you where to climb the Himalayas tomorrow si pianta come una scheggia nella realtà di oggi: ed è proprio questa atemporalità che si stempera e distende, di sala in sala, di reperto in reperto. È una strana e inquieta composizione da camera fatta di oggetti, carichi di un potere feticista in disarmo. Che si tratti della teca contenente gli effetti personali di marca che Phung Vo, il padre dell’artista, comprò al suo arrivo in occidente o dei reperti che arrivano direttamente dalla vendita all’asta di vestigia e mobilio appartenuti a Robert McNamara, capo di stato maggiore della Difesa americana durante la presidenza Kennedy, il risultato non cambia.
L’orologio Rolex, un accendino Dupont o un anello del servizio militare americano, piuttosto che due poltrone in stile Chippendale donate da Jacqueline Kennedy all’uomo politico americano vengono decostruite e trasfigurate dall’artista. Sono sì residui personali, ma diventano reliquie piuttosto anonime, modellizzazioni fuori dal tempo e da un’idea d’appartenenza.


Alludono al valore insito nell’interiorizzazione di una cosa. Infrangono la legge tautologica del ricalco e mimano la perfezione del processo simbolico, la meccanica del valore in arte si sovrappone ai movimenti dell’inconscio. Niente è più prezioso della pura significazione personale. Non è scomparso il Danh Vo che attraverso la serie ossessiva di matrimoni e successivi divorzi provava personalmente a ridiscutere il concetto di libertà. Indagava nella codificazione cartacea o nella moltiplicazione di documenti, la moltiplicazione d’identità: patenti, passaporti o carte di credito. Ora attacca direttamente il livello simbolico strettamente regolato dalle istituzioni che può corrisponde al lavoro di frantumazione della Statua della Libertà.
La sua replica in rame in scala 1:1 viene ridisseminata in pezzi identici all’originale in luoghi diversissimi. Esattamente come la bizzarra e ideologica idea di libertà, nata dalla rivoluzione francese, dalla dichiarazioni d’indipendenza e dal liberalismo dominante fu resa iconica e forgiata da Bartholdi.



Fino al 18 agosto
Danh Vo: Go Mo Ni Ma Da
Musée d’art moderne de la Ville de Paris, Parigi
