Nikolaus Hirsch: Insieme con Jens Hofmann e Adriano Pedrosa, l'architetto Nishizawa ha realizzato un incisivo intervento sugli edifici dei vecchi magazzini nei pressi del Bosforo. Mi ricorda l'arte ideale del museo sognato da Rémy Zaugg (Das Kunstmuseum, das ich mir erträume oder der Ort des Werkes und des Menschen, 1987) ma anche certi progetti museali di SANAA come il 21st Century Museum di Kanazawa: una molteplicità di spazi autonomi in un grande contenitore. Questa strategia spaziale fa nascere spazi individuali, intimi, destinati alle opere d'arte; crea dei microambienti. All'interno, questi spazi sono 'cubi bianchi', all'esterno costituiscono una 'microurbanistica' di architettura espositiva.
Come una piccola città in sé questa mostra in certo qual modo ha ribaltato e interiorizzato l'idea specificamente urbanistica delle biennali precedenti. Dato che la Biennale di Istanbul non ha una sede fissa, la scelta spaziale e critica di quest'anno di concentrarla in un unico punto, cioè nei magazzini, ha un forte impatto sulla stessa esposizione e sul modo in cui ha trasformato nell'insieme il carattere della Biennale di Istanbul.
Le edizioni precedenti della Biennale di Istanbul avevano adottato delle strategie urbanistiche forti, quasi site specific: la Scuola greca di WHW nel 2009, oppure il Centro culturale Atatürk di piazza Taksim – carico di significati politici – di Hou Hanru (2007), oppure ancora i vari spazi di Beyoglu di Charles Esche e di Vasif Kortun (2005). Lo stretto rapporto tra luoghi di produzione artistica e di produzione sociopolitica era l'elemento che rendeva unica la Biennale di Istanbul nel sempre più inflazionato mondo delle biennali. Oggi la Biennale si è ritirata dal tessuto urbano nel porto sicuro dei magazzini, in una collocazione autonoma: l'ex 'zona franca' del porto.
È una scelta pragmatica: il più grande edificio vuoto della zona di Beyoglu, proprio accanto al Modern Museum di Istanbul. Ma è qualcosa di più: è come se la Biennale di Istanbul fosse diventata un po' più simile alle altre biennali: un territorio autonomo di autoriflessione. Può non piacere, ma forse è un passo necessario, logico. Istanbul è arrivata. Dopo la crisi del XX secolo è diventata una città mondiale del XXI secolo. Per quanto riguarda la Biennale, questo fatto pare indicare uno spostamento da un ambiente museale specifico a uno generico. Uno spostamento che non rispecchia più la convinzione del valore critico intrinseco di un sito. Forse occorre superare la troppo spesso nostalgica idea del locale. Benvenuto il generico! E che si scopra lo specifico nel generico.
La politica delle carte geografiche, dei passaporti, del sangue e delle armi è rappresentata in modo raffinato nei contenitori bianchi di Nishizawa. Jens Hoffmann e Adriano Pedrosa hanno concepito la Biennale intorno a cinque opere di Gonzalez-Torres – Untitled (Bloodwork - Steady Decline), 1994; Untitled (Ross), 1991; Untitled (Passport #II), 1993; Untitled (History), 1998; e Untitled (Death by Gun), 1990 – a partire dalle quali hanno elaborato spazi distinti sotto forma di mostre collettive. Intorno a questi, ci sono spazi personali più limitati per opere d'arte intriganti come Bringing the War Home (1967-1972) di Martha Rosler. Resta una domanda: qual è la sede propria dell'opera d'arte?
Per la mia esperienza professionale di architetto e di curatore al Portikus, posso dire che non ci sono ricette. Prima di tutto, è fondamentale capire che, per esporre delle opere d'arte, non serve un architetto. Come abbiamo detto Jan Verwoert e io in occasione del suo progetto espositivo critico a Sheffield: c'è anche la possibilità di "chiudere i conti con l'architetto". Secondo la prospettiva artistica e la concezione critica del curatore di una mostra, può avere senso pensare a una modalità di presentazione specifica. È successo nel modo in cui Jens Hoffmann e Adriano Pedrosa hanno lavorato con Ryue Nishizawa: una chiara suddivisione del lavoro tra curatore, artisti e architetto. Nonostante la sua forte visibilità, l'architettura espositiva resta nella sfera dei servizi. E tuttavia l'esposizione non è solo questione disciplinare d'architettura ma qualcosa che un numero crescente di artisti considera parte integrante del suo lavoro. Era ovvio all'ultima Biennale di Venezia, dove artisti come Song Dong, Monika Sosnowska, Oscar Tuazon e Franz West hanno creato strutture architettoniche in cui venivano esposte opere di altri artisti. In questi casi, l'esposizione non è un puro sfondo, ma un intervento artistico in sé. E si può anche andare oltre: per l'European Kunsthalle abbiamo elaborato una strategia dell'"edificio istituzionale" (Institutional Building è anche il titolo di un libro che ho firmato con Markus Miessen, Philip Misselwitz e Matthias Görlich) in cui degli artisti progettano un museo tipo cadavre exquis, cercando di fondere i concetti di 'mostra' e di 'museo' e in definitiva dissolvendo la differenza tra erogatore e fruitore del servizio, tra contenitore, sfondo e oggetto d'arte.
Istanbul ha ormai un suo posto definito nella geografia del mondo dell'arte e del design. Arte e design sono diventati gli inneschi del cambiamento urbano. Vengono costruiti musei come l'Istanbul Modern e il SALT, e gallerie come Rampa, con il suo nuovo, ampio spazio sotterraneo di Nisantasi, puntano ad arrivare alla scala di Chelsea. È un fenomeno che conosciamo, dall'Hoxton di Londra al Mitte di Berlino. A Istanbul, nel quartiere di Beyoglu, le cose sembrano muoversi in questa direzione, ma ci sono differenze specifiche. I cambiamenti urbanistici non avvengono silenziosamente ma provocano resistenze. Piaccia o meno, da parte di vasti settori della popolazione le gallerie sono considerate non tanto l'avanguardia della cultura quanto l'avanguardia della speculazione edilizia. Nella zona di Tophane, molto vicina alla sede della Biennale di quest'anno, un anno fa si sono verificati assalti alle gallerie.
Un'idea curiosa: gli attacchi alle gallerie si sono verificati nel settembre 2010, esattamente tra l'11a e la 12a Biennale di Istanbul. Come in controtempo, colmavano lo spazio dei due anni.