Se spingersi oltre i propri limiti e raggiungere il cielo è un desiderio umano dai tempi di Icaro, la tensione a costruire edifici sempre più alti che aggirano le leggi della statica e arrivano a toccare le nuvole è un Leitmotiv nella storia dell’architettura, soprattutto a partire dall’età moderna.
È infatti con la genesi della città moderna, in particolare statunitense, che si fa spazio una nuova tipologia edilizia: il grattacielo, col suo marcato sviluppo verticale (in origine, almeno 15-20 piani con altezza minima di 50-70 metri) che, dalle sperimentazioni della scuola di Chicago nella seconda metà del XIX secolo, diventa gradualmente un emblema dello sviluppo tecnologico ed economico esportato in tutto il mondo.
Se la costruzione in altezza è stata motivata inizialmente da ragioni urbanistiche e speculative che imponevano un modello insediativo in grado di sfruttare intensivamente aree ridotte a causa dell’elevata concentrazione edilizia nella città industrializzata, ma con elevato valore commerciale, con il tempo il grattacielo spinto a quote sempre più vertiginose e tecnologicamente sempre più performante è diventato uno strumento di marketing finalizzato alla rappresentazione dell’immagine pubblica e del potere economico e commerciale non solo del suo committente, ma anche della città che lo accoglie.
In Italia la stagione degli edifici sviluppati in altezza si apre tardi, rispetto agli Stati Uniti. A parte la Mole Antonelliana, al tempo della sua costruzione nota come il manufatto in muratura più alto d’Europa, in Italia la costruzione in altezza si è sviluppata soprattutto dal secondo dopoguerra, nelle città risorte dalle proprie ceneri e lanciate entusiasticamente verso il boom edilizio. Il contesto storico ha consentito di sperimentare nuove tecnologie (in Italia in particolare il cemento armato, più che l’acciaio come negli Stati Uniti) e di punteggiare le città di edifici con forte valenza mediatica, a testimonianza dei processi di trasformazione sociale, culturale ed economica allora in corso.
A partire dalle prime realizzazioni dal linguaggio razionalista e brutalista (Filo Speziale a Napoli, Piacentini a Genova, Berardi a Cesenatico, Gio Ponti a Milano), con gli anni la tipologia si è ampiamente evoluta: dal Postmoderno (Beguinot a Napoli, SOM a Genova) all’High Tech (César Pelli a Milano, Fuksas a Torino), a opere che rileggono tipologie passate in forma attualizzata (Torre Velasca di BBPR; Purini a Roma), fino agli interventi contemporanei che, soprattutto a Milano, sono diventati emblemi dell’evoluzione del capoluogo in metropoli sempre più attrattiva e competitiva a livello internazionale (Isozaki e Maffei, Torre Allianz; Stefano Boeri, Bosco Verticale; Mario Cucinella, Torre UnipolSAI), anche grazie alla firma di archistar che hanno ridisegnato in verticale il profilo della città.
Dai tempi di esordio ad oggi, i grattacieli in Italia hanno sempre suscitato dibattiti accesi, per via della differenza tra il loro milieu storico-culturale ed impianto urbanistico da quello delle città statunitensi: accolti con plauso da chi vi legge un’iniezione di modernità per un paese fin troppo radicato nella sua storia, o ferocemente disconosciuti da chi trova in questa tipologia, inevitabilmente visibile da ogni prospettiva, una “dimostrazione di priapismo e di tracotanza aziendale”, come dice Wu Ming 1 in riferimento a un grattacielo che troneggia nella Pianura Padana nei pressi di Bologna.
Indipendentemente da giudizi di merito sulle architetture verticali, resta aperto un interrogativo, se cioè il grattacielo, così come ogni tipo di architettura che ha il “primato” come input progettuale (in questo caso, l’altezza) e talvolta l’ansia per la spettacolarizzazione, possa essere una leva di sviluppo socioeconomico anche per le comunità che vi gravitano intorno, oltre che uno strumento di promozione e valorizzazione immobiliare per i suoi investitori.