Se talvolta palle da demolitore e mine esplosive sono accolte con sollievo da parte di chi coglie in una specifica opera costruita uno sfregio al decoro urbano o alla dignità umana (basti pensare alle vituperate Vele di Scampia), capita anche che la distruzione di un’architettura avvenga con profondo rammarico al di là del giudizio estetico kantiano del “bello” o di altri parametri valutativi soggettivistici. E’ il caso di architetture del passato che hanno interpretato lo spirito di un’epoca e di chi le ha ideate, che oggi non esistono più ma che continuano a sopravvivere in fotografie del passato, libri d’architettura o nella mente di chi le ha vissute.
Così, citiamo a imperitura memoria opere scomparse nelle forme costruite ma intramontabili e cruciali nella storia del pensiero architettonico: sopraffatte da eventi catastrofici (Crystal Palace di Joseph Paxton, World Trade Center di Minoru Yamasaki) o provvisorie (Padiglione dell’Esprit Nouveau di Le Corbusier); travolte dal degrado (Imperial Hotel di Frank Lloyd Wright, Pruitt-Igoe di Minoru Yamasaki, Robin Hood Gardens di Alison & Peter Smithson, Nakagin Capsule Tower Building di Kisho Kurokawa) o dal naturale processo di evoluzione dei sistemi urbani (Singer Building di Ernest Flag, Pensylvania Station di McKim,Mead&White, Prentice Women's Hospital and Maternity Center di Bertrand Goldberg, Netherlands Dance Theater di Oma); oppure, cancellate dalla mano dell’uomo che non ne ha colto il valore rappresentativo e testimoniale (La Maison du Peuple di Victor Horta, Gettyburg Cyclorama di Richard Neutra; Autogrill Pavesi a Montepulciano di Angelo Bianchetti; Laboratorios Jorba di Miguel Fisac).
Se è appurato che nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma, anche senza indulgere nel culto nostalgico del passato la domanda (retorica) che sorge spontanea è se, in certi casi, il vuoto che alcune di queste opere hanno lasciato non sia soprattutto culturale e se, in altri, il rimpiazzo abbia compensato la perdita.