Su Instagram sono iniziati a comparire da qualche mese dei palazzi dalle forme sinuose, che emergono e si immergono organicamente in colline verdi e fiori esotici, o mausolei dalle colonne frattali, così insanamente dettagliate da sembrare scolpite nel burro; hotel che emergono dall’acqua prendendo le sembianze di vetro e ghiaccio, case che diventano corvi o papere, ville surrealiste sospese nel vuoto che neppure Frank Lloyd Wright avrebbe avuto l’audacia di disegnare, fino agli “Architectural beings”, i palazzi di Hassan Ragab che prendono vita danzando.
Sono le nuove architetture impossibili e sono tutte creazioni interamente digitali. Le troviamo in account Instagram di artisti come Gaudism, Joe Mortell, Tim Fu, Manas Batia, Six N. Five, o in verticali come parametric.architecture, ai.arch.itecture, designmidjourney.
È un po’ come se il mondo della progettazione si fosse improvvisamente messo a sognare in digitale.
Anche i grandi studi di architettura hanno dedicato energie alla ricerca di queste architetture che vivono nel metaverso, sfruttando per esempio l’accesso su invito di software di creazione potenziata dall’AI come Dall-E: è successo così nel caso di “Architecting the metaverse” di Zaha Hadid Architects e Refik Anadol Studio. In altri casi, l’appoggio di grossi nomi del mercato immobiliare ha finanziato la costruzione di palazzi-statue a oggi irrealizzabili, come il metaverso museo “The Row” di Every Realm.
È un po’ come se il mondo della progettazione si fosse improvvisamente messo a sognare in digitale. Eppure a guardarle bene queste costruzioni non sono proprio dichiaratamente impossibili, come le scale di Escher o di Piranesi, sembrano più una sfida estrema, la prosecuzione coerente di un percorso iniziato più di un secolo fa.
La progettazione generativa, il design parametrico, l’applicazione di funzioni casuali e i rendering realizzati con l’aiuto di software di intelligenza artificiale “text to image” (TTI), sono solo alcuni degli strumenti che nel corso degli ultimi quarant’anni architetti e designer hanno usato nel tentativo di “uscire da una scatola”, come diceva Frank Gehry, “affrontare la complessità” come ci ricorda qui Shajay Bhooshan di Zaha Hadid Architects (ZHA), e infine liberarsi dalle limitazioni della progettazione “umana”, come raccontano, Tim Fu e Manas Bhatia, due architetti impiegati rispettivamente per ZHA a Londra e Ant Studio a Noida (Nuova Delhi), che dalla comparsa di DALLE 2, MidJourney e Stable Diffusion si sono occupati di “prompt crafting”.
È noto che quando Fondazione Guggenheim commissionò a Frank Gehry la costruzione del suo celebre Museo di Bilbao, Catia, l’avanzato software di modellazione 3D inizialmente concepito per l’industria aerospaziale, era stato appena acquistato da Ibm. La commercializzazione del software, insieme all’improvviso abbassamento del prezzo del titanio sul mercato russo, sono le due grandi variabili che resero possibile la costruzione di quella meraviglia eterea e aliena, con non una singola superficie piatta e una variazione di curve che solo un cervello in grado di computare su grandi scale avrebbe potuto progettare.
Lo stesso vale per i progetti di design parametrico realizzati negli anni da Zaha Hadid e ZHA come ci riferisce Shajay Bhooshan, a capo del gruppo di ricerca di design computazionale dello studio. Un’architettura che tenga conto della complessa rete di informazioni che caratterizza l’habitat della nostra società attuale, così come le sue sovrastrutture “aumentate digitalmente” continua Bhooshan “non sarebbe realizzabile senza l’adozione in toto di tecnologie digitali”.
È certo romantico ricordare come tutto abbia avuto inizio con un modello analogico composto da corde, pesi e contrappesi, costruito nel 1883. Il modellino “a testa in giù” della Sagrada Familia, ideato da Antonio Gaudí per calcolare al millimetro il complesso sistema di architravi della cattedrale. Ma al contempo gli attori in gioco sono diventati i più svariati. Oggi studi come ZHA si fondano sulla “costruzione di una fitta rete di collaboratori accademici, scientifici, progettisti, consulenti ingegneristici, start-up tecnologiche, fornitori di software”.
Se il set di dati è limitato o omogeneo, le immagini prodotte dal software potrebbero non riflettere o rispettare accuratamente i diversi stili e valori culturali esistenti nel mondo.
Alla fisica spaziale Bhooshan contrappone “le leggi della ‘fisica sociale’”, che “rimangono invariate, indipendentemente dal fatto che gli spazi siano virtuali o fisici”. E così, se progetti come “The Row” di Every Realm, custode delle architetture digitali progettate da Daniel Arsham, Misha Kahn o Six N. Five, o come “The Shipping,” la collezione di mobili impossibili di Andrés Reisinger, hanno puntato sulla sperimentazione libera al di là delle leggi della fisica, ZHA, che è già da tempo addestrata a digitalizzare i flussi sociali, con il suo Liberland Metaverse ha preferito tracciare un continuum tra materico e virtuale, riferendosi a “un vocabolario di ciò che è noto che funziona”, perché osservato negli spazi fisici.
Come molti altri studi e progettisti freelance, anche ZHA sta dedicando parte della sua ricerca ai rendering di spazi 2D grazie all’intelligenza artificiale. Su questo può dirci qualcosa di più l’architetto e ricercatore Tim Fu, membro del “gruppo di ricerca computazionale” di ZHA, Zhacode. “Un ramo del design parametrico in cui sono specializzato” afferma Fu “è quello chiamato ‘design generativo’, in cui si scrivono equazioni di comportamenti e poi si lascia che si riproducano in autonomia.”
Un sistema che viene messo in pratica già da tempo sia nell’agent-based design (la progettazione e simulazione di comportamenti complessi di entità e oggetti singoli o molteplici attraverso un modello computazionale), così come nei sistemi frattali. “Questi ultimi spesso danno luogo a morfologie imprevedibili e interessanti”, proprio come avviene nella sua attività di “prompt crafting”, ovvero la ricerca di quali testi e comandi possono aiutare un’IA TTI a realizzare un rendering architettonico.
“Strumenti come Midjourney riducono di gran lunga il tempo tra progettazione e creazione dell’output visuale”, con le IA, ci racconta Manas Bhatia “non è più necessario seguire la strada convenzionale dello schizzo, della modellazione 3D e del rendering”. Al momento l’utilizzo delle IA TTI è limitato a “realizzare moodboard e presentazioni o per migliorare i progetti già esistenti”, racconta Bhatia, ma Fu ci confessa che è attualmente impegnato “in una collaborazione di ricerca con un’impresa di costruzioni con l’obiettivo di produrre un progetto di questo tipo”.
Sfide affascianti che nascondono infrastrutture tanto insidiose e complesse quanto quelle che cercano di disegnare. È impossibile osservare come con i rendering TTI i parametri fissati in partenza dal progettista siano orientati ad un output la cui imprevedibilità non dipende soltanto da aspetti randomici, quali potevano essere il perlin noise o le variabili di pattern romboidali realizzate con T-spline. Il dataset di partenza dei TTI oggi disponibili dei vari software proprietari è una variabile altamente significativa su cui purtroppo il progettista non ha controllo. Quest’ultimo “è la base su cui il software genera le immagini e influenza lo stile, l’aspetto e la sensazione delle immagini prodotte”, ammonisce Bhatia, “se il set di dati è limitato o omogeneo, le immagini prodotte dal software potrebbero non riflettere o rispettare accuratamente i diversi stili e valori culturali esistenti nel mondo”.