C’è un certo interesse attorno all’architettura dei fari. Sarà perché, in un mondo globale e compulsivamente interconnesso, queste costruzioni solitarie evocano un’idea di vita essenziale, appartata e forse un po’ folle: quella dei faristi che avevano spesso come unici interlocutori il mare e il vento e nessuna altra necessità se non l’equilibrio con la natura. O sarà perché, in modo più subliminale, sono un solido baluardo a protezione da forze incontrollabili: con il loro fascio di luce intermittente che squarcia l’oscurità, i fari guidano e segnalano zone costiere pericolose, accessi ed ostacoli, tutelando l’orientamento e la sicurezza della navigazione e rassicurando sulla possibilità per l’uomo di mantenere un potere – seppur minimo – su dinamiche imperscrutabili.
Questi luoghi, da un lato poetici e dall’altro tecnicamente efficienti, sono però oggi minacciati dall’evolversi delle tecnologie di comunicazione che spesso ne provocano la dismissione, l’abbandono e il degrado.
Per questo molti fari in disuso, in ragione del loro valore storico-testimoniale, vengono recuperati e rinascono a nuova vita: come spazi ricettivi per visitatori che ambiscono a ritrovare sé stessi in un contesto riconciliante (Faro Capo Spartivento, di Bergeggi e di Brucoli), come musei della cultura marittima che rappresentano (Faro di Santa Marta), come semplici testimonianze di un ecosistema da preservare (Faro di Capel Rosso, Faro Rubjerg Knude).
Tuttavia i fari restano ancora un tema progettuale invitante e così se ne costruiscono di nuovi che si stagliano all’orizzonte come totem scultorei, per svolgere un ruolo schiettamente funzionale (Faro di Yeda, Faro Punta del Hidalgo, Enoshima Sea Candle) o per rappresentare un landmark iconico nel territorio (Al Fanar).
In ogni caso, resta la fascinazione di queste architetture “luminose” e del valore simbolico che sottendono: lanterne che non si spengono mai, in barba a satellitari e GPS.