A Parigi in rue de la Harpe, ogni due settimane l’Académie des Sciences metteva in mostra quattro modelli di macchine, che prefigurassero nuovi modi per produrre. Era il 1683 , ed è quello che Linda Aimone e Carlo Olmo, nel loro libro Le Esposizioni Universali 1851- 1900 , presentano come il primo esempio di esposizione industriale: prototipi, simboli vivi del progresso, mostrati e condivisi con tutti.
Ed è, in buona sostanza, ciò che le Expo propongono da quasi sempre: le società, e il loro contributo all'innovazione.
Certo, è “solo” un secolo e mezzo o poco più che le Esposizioni sono anche Universali — dal 1851, quando 25 paesi riempirono il Crystal Palace di Londra per la Great Exhibition — ma con questa loro missione, le Expo sono state forse la prima rappresentazione plastica, e destinata alle masse, di una idea di mondo globalizzato che all'inizio era persino difficile da pensare.
Lungo la loro storia hanno conosciuto diverse fasi e forme: le prime Expo erano portavoce della produzione, della rivoluzione industriale, ma molto presto sono diventate scacchiere di posizionamento internazionale, politico ed identitario (fino all’immagine sinistramente iconica di Parigi 1937, con la coppia lavoratrice staliniana e l’aquila nazista che si fronteggiano dai due angoli del Champ de Mars).
Quando la modernità, e la Seconda Guerra Mondiale, arrivano e rendono il mondo molto più piccolo, anche Expo evolve, e con lei i linguaggi e i problemi intrinseci. Certo, nel secondo dopoguerra arriva la guerra fredda a condizionare quasi tutto, ma sotto il coordinamento — tuttora attivo — del Bureau International des Expositions torna un certo entusiasmo per un futuro fatto di idee comunitarie e fino a poco prima ritenute fantascientifiche: tutto è connesso, tutto è progresso, ricerca. È l’atomo d’acciaio (l'Atomium) costruito a Bruxelles nel 1958, è Diana Ross che canta vicino a una geode di Buckminster Fuller da Montréal nel 1967.
Le Expo diventano un tutt'uno con le città che le ospitano. Forse, però, non lo diventano completamente: nei decenni si moltiplicano le Expo specializzate e si fa sempre più presente il problema dei siti espositivi di volta in volta dismessi e lasciati all'abbandono. Questo non impedisce in ogni caso la nascita di quello che potremmo chiamare uno “stile Expo” dell'architettura, temporanea e altamente tecnologizzata, che ancora ci accompagna oggi.
Il nuovo millennio poi si mostra consapevole di tutte queste tematiche: si decide di ridurre il proliferare degli eventi portando le World Expo ad una cadenza quinquennale e si rinforza l'importanza della loro tematizzazione, così come l'attenzione alla loro legacy per le città (due aspetti che, ad esempio, nel 2015 hanno significato una autentica trasfigurazione per la città di Milano).
Tutto questo avviene in sensi anche molto diversi, come potrà mostrare la cinquina secca di pietre miliari che abbiamo selezionato nella storia delle Esposizioni Universali.