Es la historia de un amor, quella tra Domus e la mutevole entità milanese usualmente designata come Salone del Mobile: historia de un amor, per cui fatta di entusiasmi, assonanze, dissonanze, spesso male parole, ma in generale della lunga condivisione di un discorso sempre più ampio, che presto è andato al di là dei mobili a coinvolgere ricerca, politica, il nostro modo di vivere, ed una storia ormai globale partita dal nucleo di una singola città. Dopo un decennio passato da importante e composta manifestazione commerciale, con i primi ‘70 il Salone si tuffa nel pieno di quel fenomeno culturale che sta portando alle masse la wave radicale italiana ed europea, rappresentato alla perfezione proprio nel 1972 dalla mostra Italy: the New Domestic Landscape al MoMA di New York. Nel presentare in mostra i lavori di Sottsass, Superstudio, Archizoom eccetera, il curatore Emilio Ambasz parla di oggetti che “deliberatamente tentano di formulare un commento sul ruolo che normalmente ci si aspetterebbe per loro nella società”.
Dal Salone al Supersalone, in 60 anni di Domus
Ripercorriamo nelle pagine della nostra rivista la storia dell’appuntamento più importante del design italiano, dalle prime fiere del mobile alla Milano delle ultime Design Week.
Gaetano Pesce al Salone 1969. In Domus 480, novembre 1969
La collezione di Giotto Stoppino per Bernini al Salone 1969. In Domus 480, novembre 1969
Kartell al Salone 1969. In Domus 480, novembre 1969
Designer di Kartell al Salone 1969. In Domus 831, novembre 2000
De Pas, D’Urbino, Lomazzi, Decursu. Installazione per Gomma-gomma al Salone 1969. In Domus 480, novembre 1969
Gufram al Salone 1969. In Domus 480, novembre 1969
Poltronova e BBB al Salone 1973. In Domus 528, novembre 1973
Memphis al Salone 1981. In Domus 620, settembre 1981
Eventi a Milano; Memphis e Giellesse al Salone 1982. In Domus 634, dicembre 1982
Eventi a Milano; Evoluzione, Cassina e Busnelli al Salone 1982. In Domus 634, dicembre 1982
Trussardi per Busnelli edizioni, Salone 1983, In Domus 646, gennaio 1984
25 anni di Salone del Mobile. In Domus 675, settembre 1986
Salone 1998, In Domus 806, luglio 1998
Spazio Vitra alle mura spagnole, 1999. In Domus 817, luglio 1999
Achille Castiglioni e Ferruccio Laviani per Moroso, 1999. In Domus 817, luglio 1999
Mostra su Ettore Sottsass al Salone 1999. In Domus 817, luglio 1999
Fabrica, grafiche per Domus al Salone 2000. In Domus 826, maggio 2000
Vincent Van Duysen al Salone 2002. In Domus 848, maggio 2002
Joris Laarman e Anita Star al Salone 2004. In Domus 870, maggio 2004
Circular, Domus a San Siro, Salone 2005. In Domus 881, maggio 2005
Gillo Dorfles per il Salone 2006. Copertina di Domus 892, maggio 2006
Esterni al Fuorisalone 2008. In Domus 915, giugno 2008
Esterni al Fuorisalone 2011. Campeggio per designer. In Domus 947, maggio 2011
Fuorisalone 2011. In Domus 947, maggio 2011
Domus per Salone 2012. In Domus 959, Maggio 2012
Attilio Stocchi, Favilla, Euroluce 2015. In Domus 991, Maggio 2015
Stefano Andreani, (In)tangible impact, Milano Design Week 2019. In Domus 1034, aprile 2019
Stefano Andreani, (In)tangible impact, Milano Design Week 2019. In Domus 1034, aprile 2019
Stefano Andreani, (In)tangible impact, Milano Design Week 2019. In Domus 1034, aprile 2019
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- Giovanni Comoglio
- 28 febbraio 2022
È questo lo spirito che si respira dalle immagini di una fiera sempre più critica, e che per tutto il decennio continuerà ad esprimersi, ma ogni volta in termini di contrapposizione maggiore tra critici e produzione, nei termini usati ad esempio da Ugo La Pietra nel 1977, di “un’estenuante corsa alla novità attraverso tutte quelle operazioni che dalla ricerca della novità portano fatalmente ad assurde e delle teorie forme di competitività” (Domus 577, dicembre 1977). Quegli anni che Jasper Morrison ha recentemente ripercorso nell’elogio dei suoi primi anni milanesi (Omaggio a Milano, Domus 1050, ottobre 2020) sono anni in cui immagine e oggetto si rincorrono e si sovrappongono. Dice Tommaso Trini:
“Si privilegia l'eccedenza dell'immagine sull'oggetto. È il realismo dopo i telefoni bianchi, l'attualità gergale del pop o del controdesign, del folk, del revival, dove la forma si fa notizia. Come i cibi arricchiti di vitamine, questi arredi sono arricchiti di metafore, e ce ne sono per tutti. I neoclassici progettano il bello per fasce sociali irrimediabilmente alte, gli immaginisti producono per tempi irrimediabilmente corti”.
(Le quattro gambe del design, Domus 601, dicembre 1979)
Nel 1981 si arriva al climax di questa critica agli oggetti attraverso gli oggetti: nasce Memphis e quell’anno è letteralmente “la bomba del Salone”.
Ma una grande evoluzione è già in strada: col finire dei disco years, e l'incalzare della Milano da bere, in un trionfo di semiotica postmoderna sta prendendo piede la dimensione dell'evento, trasfigurazione dei precedenti happening in una galassia di party disseminati per la città che iniziano a diventare sempre più importanti, quasi più della fiera stessa. Famose testate che affittano interi luna park, Alcantara che lancia una sua collaborazione radunando una folla fuori dal Padiglione di Arte Contemporanea per assistere a un concerto in vetrina e così via. Priorità e ordini di grandezza si sono scambiati: Vanni Pasca, citando Giulio Carlo Argan, racconta un processo progressivo fondato sulla gara di sorpasso che si stabilisce tra l'oggetto è la sua immagine, di un mondo dove la pubblicità dell'oggetto ne determina la concezione, facendosi essa stessa progetto (L’oggetto e l’immagine, Domus 642, settembre 1983) e Ugo La pietra gli farà ancora eco (Domus 657, gennaio 1985) .
In pratica molti designer scultori del postmoderno e neomoderno teorizzano le effimere vibrazioni dell' apparente, l'avvenimento caduco e provvisorio, per un disegno ‘amoroso’ che si contrappone al vecchio disegno ‘funzionale’.
Ugo La Pietra, Domus 657, gennaio 1985
Quando poi lo spettro d'azione e di coinvolgimento del design si amplia a dismisura (sono ormai gli anni ‘90) fino a coincidere col perimetro di molte discipline diverse, e perdendo apparentemente il proprio, qualcuno deve pur fare da coscienza del design: Enzo Mari (così lo definiva Alessandro Mendini) da solo di certo non basta. Ed è la critica di quegli anni che in qualche modo si incarica di farlo, a partire da Juli Capella che su Domus si chiede come affrontare la consueta carrellata di novità “quando in definitiva ci facciamo sempre trascinare dalla passerella annuale del salone che, ogni volta, assomiglia sempre di più al febbrile mondo della moda”. In realtà, su un fronte differente, Andrea Branzi si incarica in quegli anni anche di evidenziare il valore civile del design, capace di organizzare nel tessuto produttivo una vera resistenza allo status quo politico italiano:
“…una cultura civile che ha operato attraverso le cose domestiche quella modernizzazione mancata nello scenario pubblico del paese: design e moda sono il segno di una imprenditoria di opposizione che scarica la sua energia critica non nelle polemiche politiche, ma nella qualità tecnica e espressiva dei prodotti, e che fa circolare nel mondo un sistema di segni che non ha uguale per bellezza e carisma”
(Sul Salone del Mobile ‘94, Domus 762, novembre 1994)
E nel frattempo, ci si incarica anche di caricare il Salone e la sua galassia di un mandato strettamente culturale: arrivano infatti le mostre. Su Munari, Aalto, Sottsass, Castiglioni, Colombo e così via.
Questo lavoro di coscienza del design si fa poi sempre più carico di aspettative, man mano che ci si avvicina alla svolta del millennio (anche se, secondo Capella: “Qual è stata la grande differenza tra il design della fine del secondo millennio è quello dei primi del terzo? Nessuna, perché in un anno nulla è in grado di smuovere mastodontico Mondo Del Mobile.”) e man mano che tutto il mondo del design si fa sempre più dipendente dai grandi nomi.
Certo, arrivano le Torri Gemelle a troncare gli entusiasmi globalisti della New Economy, e con essi le cartes blanches fino ad allora accordate alle follie di tanti celebri designer (Storie di alberghi, Domus 848, maggio 2002) però ormai si è in piena apertura della stagione delle Design Week come abbiamo imparato a conoscerle, col Salone in Fiera, il Salone Satellite a fianco e il Fuorisalone in città, e con le star, le archistar, le design star. Nomi. Domus, raccontando (dal 2002 day-by-day sul pressoché neonato domusweb.it ) una dimensione di smarrimento sui principi, popolata però di nomi, cerca una way out: nomi anche lì, ma nomi tanto noti quanto nuovi, a cui domandare “dove stiamo andando?” Che sia Tokujin Yoshioka a portarci sul confine design/moda attraverso un foglio di carta (Dalla carta alla plastica, Domus 848, maggio 2002), o l’allora giovane promessa Joris Laarman a girare Milano in bici creando una live selection di proposte (La scelta di Joris, Domus 870, maggio 2004) , è il tempo reale, la speranza di padroneggiarlo e capirlo, a farla da padrone; e con lui una transizione sempre più pervasiva al vituale, al digitale.
Laddove arte, design, fashion e quant'altro si fondono in un felice e quasi sempre sorprendente risultato... la recensione sul Fuori Salone 2013 letta l'altro giorno via Google, continua a rimbombarmi nella testa... fondere in un felice e sorprendente risultato l'arte, il design, il fashion e il quant'altro. Confido molto nel quant'altro. (20-10-03)
Stefano Mirti, Domus 869, aprile 2003
È un discorso che continua anche quando la crisi del 2008 ridefinisce tutte le domande e le priorità, e il Salone è sempre più fatto di Fuorisalone, di interrogativi su come stiamo al mondo, e di progetti di placemaking e citymaking temporanei. Salone e Domus si ritrovano insieme dentro uno stesso discorso che ha dentro tutti gli attori delle design week, gli attori globali, la città stessa di Milano. Il coinvolgimento è concreto, anche con eventi come già l'apertura one night dello stadio di San Siro trasformato in una piazza nel 2005, o le Domus Voices del 2014 al chiostro del Conservatorio.
Quello avviato prima del brusco stop pandemico era infatti un discorso incentrato sulle responsabilità del design, rispetto al pianeta, rispetto alle città, e rispetto alle persone, tanto che la Domus di Winy Maas dove “tutto è urbanistica” produceva nel 2019 uno studio sull'impatto della design week sulla città di Milano, e Dejan Sudjic in pieno lockdown pensava poi a portare avanti il discorso:
“Se consideriamo che la pratica del design sia una costante lotta tra William Morris e Raymond Loewy, cioè tra il senso della funzione sociale e la creazione di forme sature di testosterone orientata al profitto, Allora l’eredità di Morris oggi è in ascesa.”
(Design: è troppo tardi per salvare il mondo?, Domus 1045, aprile 2020)
Tornando adesso a uscire dai rifugi dopo il biennio Covid, le domande sospese riprendono ancora più incalzanti, e forse vanno a questionare la realtà stessa del Salone nei termini che nel 2020 David Chipperfield — interrogandosi sull’annullamento dell’ “inquietante e importante Torre di Babele, traboccante genialità e design, e sconcertante per dimensioni” formulava a metà del suo anno da guest editor:
“Essere meno complici degli interessi e delle priorità del consumismo, ma soprattutto andare in ricerca della bellezza, amarla, proteggerla e darle forma in ogni possibile occasione.”
(In lode della bellezza, di fronte alla crisi, Domus 1045, aprile 2020)