È stato avviato in aprile il piano di riqualificazione di Giambellino-Lorenteggio, frutto dell’accordo di programma da 100 milioni di euro siglato tra Comune di Milano e Aler (Azienda Lombarda di Edilizia Residenziale) nel 2016 e cofinanziato con fondi europei. Previsti l’abbattimento e la ricostruzione di 5 caseggiati popolari su 31, la ristrutturazione e la bonifica dall’amianto di circa 300 alloggi, la piantumazione di alberi lungo la linea tramviaria. Verranno rifatti i marciapiedi, create aiuole e aree verdi e percorsi ciclabili di collegamento con la stazione di San Cristoforo e con gli altri tratti esistenti.
La stazione coincide con il capolinea della nuova metropolitana (M4), che servirà il quartiere con due fermate. Il progetto di Studio Oma e Laboratorio Permanente, vincitori del concorso internazionale (2018), trasformerà l’ex scalo ferroviario in un parco acquatico lineare.
Di fronte al mercato comunale sorgerà la Nuova Biblioteca Lorenteggio, esito di gara internazionale (2017) vinto da Grau Magaña Urtzi: offrirà spazi per la lettura e lo studio, un’area espositiva e un Forum.
Saranno riqualificati i giardini di largo Giambellino, mentre grazie al progetto europeo Clever Cities sorgerà un parco culturale su un’area abbandonata di 127mila metri quadrati.
La filosofia
“L’idea di fondo è creare delle contaminazioni con le zone circostanti facendo leva sui nuovi punti di attrazione come la Biblioteca, il mercato o le nascenti attività imprenditoriali, e sulle piste ciclabili per far sì che il Giambellino si lasci alle spalle la vocazione originaria di quartiere dormitorio – spiega l’assessore all’Urbanistica del Comune di Milano Pierfrancesco Maran – e si apra al resto della città, complice l’arrivo di M4. Così la trasformazione di via Segneri in un boulevard punta a spezzare la continuità delle case popolari e creare un sistema di socialità diffusa”. La consapevolezza dell’amministrazione è che “l’intervento non possa esaurirsi nel piano avviato. Servono ulteriori investimenti – spiega l’assessore -: abbiamo presentato un progetto complementare da 100 milioni di euro da finanziare con il Recovery Found. La sfida è trasformare il Giambellino in un luogo di interesse”.
Puntava ad accendere la “scintilla” del mercato, per usare le parole di Renzo Piano, la visione elaborata dal gruppo G124, che aveva lavorato tra il 2014 e il 2015 in parallelo al programma di coprogettazione portato avanti da enti del terzo settore, associazioni di quartiere e il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico. “Avevamo capito che bisognava partire da lì”, racconta Ottavio Di Blasi, architetto del team. “Pensavamo di far crescere ulteriormente il mercato e di farlo diventare il centro del quartiere in quanto ne rappresenta il luogo identitario. Si parla sempre di standard, di retini, di numeri, ma i numeri non sono tutti uguali, cambiano a seconda dei luoghi. Così avremmo voluto che il parco diventasse il ‘polmoncino’ del Quadrilatero, che invece è quasi interamente edificato, mentre il verde pensato dall’amministrazione è solo di ambientazione. Milano ha avuto diverse occasioni per strutturare parchi urbani, che non sono state sfruttate negli ultimi grandi masterplan né con la rigenerazione degli ex scali ferroviari. Con il G124 avevamo cercato di mettere a fuoco questo concetto: il verde non può essere la sommatoria di aiuole e alberi sparsi, ma deve puntare sulla concentrazione”.
Diverso il ragionamento dell’amministrazione: mantenere il verde di quartiere, ma integrarlo con il sistema dei parchi dell’Ovest. “Con le infrastrutture verdi vogliamo creare uno snodo di interconnessione con il resto della città” spiega Maran.
L’identità, soprattutto nei quartieri periferici, è un elemento indispensabile. E tutti lì erano orgogliosi di abitare al Giambellino.
Il piano presentato dal Comune non coincide con il masterplan elaborato dalle associazioni e controfirmato dagli enti pubblici. “C’è stato un resettaggio del lavoro di progettazione partecipata, che ha provocato lo scioglimento del comitato costituitosi, la divisione interna al terzo settore e un enorme senso di sfiducia e impotenza degli abitanti” racconta l’antropologa Erika Lazzarino dell’associazione culturale Dynamoscopio. “La prima fondamentale modifica è stata la decisione di abbattere i cinque stabili tra via Lorenteggio, via Giambellino, via Odazio e via Inganni invece di riqualificarli tutti, almeno in parte. Su 2.453 alloggi 800 non sono assegnati – spiega Lazzarino –, il progetto ne riqualifica circa 400. Il tema del vuoto è la cancrena del Giambellino: da qui scaturisce una tensione sociale forte tra chi non può permettersi una casa e chi non ha voglia di pagarla”. Il quartiere presenta un complesso tessuto sociale: su 4.285 abitanti il 40,3% sono stranieri (20% la media cittadina), il 23,3% over 65, il 70% ha un reddito Isee-Erp inferiore ai 14mila euro. “Così è stata anche tradita la promessa del mantenimento delle portinerie nei palazzi, che rientrava negli interventi sociali del masterplan”.
“Non credo che la demolizione e la ricostruzione siano l’unico approccio possibile, anche se è il più semplice da gestire per un’amministrazione - commenta Di Blasi -. Il G124 si proponeva di migliorare la qualità dell’abitare, in particolare nelle case popolari a muratura piena, più facili da isolare termicamente e da servire con strutture esterne come gli ascensori rispetto agli edifici degli anni Settanta”. Abbattere significa anche stravolgere il volto del quartiere, che ha una storia, una sua identità. Ciò incide sul sentimento di mancata condivisione al progetto dei residenti: “L’identità, soprattutto nei quartieri periferici, è un elemento indispensabile. E tutti lì erano orgogliosi di abitare al Giambellino” ricorda Di Blasi.
L’altro livello del masterplan era la riqualificazione sociale: “Il nostro obiettivo era redistribuire il valore generato dall’intervento urbanistico con progetti specifici, ma i fondi sono stati deviati o frammentati tra vari interventi” racconta Lazzarino. Rischiano così il degrado le opere di arredo urbano: “In parte lo spazio rinnovato e manutenuto restituisce dignità e senso di comunità alle persone, dall’altra il confine è labile – spiega l’antropologa -: se non si assistono le famiglie più bisognose e i casi sociali, se non si combattono la microcriminalità e lo spaccio, si rischia di inasprire ulteriormente il conflitto”.
Il futuro dell’ex scalo
In attesa di riqualificazione anche l’ex scalo ferroviario di San Cristoforo, area da 140mila metri quadrati che dovrebbe trasformarsi in un parco acquatico lineare: servirà a mitigare le isole di calore generate delle polveri sottili e a filtrare le acque dei canali che arrivano in Darsena. L’area, oneri di urbanizzazione dello scalo Farini, è a destinazione 100% verde, ma è troppo distante dal Giambellino per potere essere considerata un parco urbano e priva di una vocazione specifica. Per Mario Abis, sociologo e coordinatore dell’iter di rigenerazione degli ex scali “San Cristoforo rischia di venire sottovalutato. Il punto è trovare una connessione tra le stazioni in termini di vocazioni funzionali integrate. Al momento, infatti, l’attenzione dell’amministrazione e degli investitori è rivolta su Scalo Farini e Scalo Romana, complici le Olimpiadi del 2026”. La scommessa per San Cristoforo? “Integrarlo con la riapertura del sistema dei Navigli in un’ottica di ecologia e sostenibilità, vista la potenza dell’acqua, combinata con il verde, nell’abbattere lo smog”. Se il dibattito sullo punta a una “sanificazione” dell’ambiente urbano, dall’altro il progetto di riapertura dei canali avrebbe il pregio di ripercorrere la storia, sovrapponendosi alla visione di Leonardo da Vinci. “Potrebbe essere l’occasione per valorizzare Milano con infrastrutture miste di verde e acqua, conferendo all’ex scalo la vocazione di “seconda Darsena” e di polo di attrazione del quartiere e del sud ovest della città”.
In attesa di riqualificazione anche l’ex scalo ferroviario di San Cristoforo, area da 140mila metri quadrati che dovrebbe trasformarsi in un parco acquatico lineare: servirà a mitigare le isole di calore generate delle polveri sottili e a filtrare le acque dei canali che arrivano in Darsena. L’area, oneri di urbanizzazione dello scalo Farini, è a destinazione 100% verde, ma è troppo distante dal Giambellino per potere essere considerata un parco urbano e priva di una vocazione specifica. Per Mario Abis, sociologo e coordinatore dell’iter di rigenerazione degli ex scali “San Cristoforo rischia di venire sottovalutato. Il punto è trovare una connessione tra le stazioni in termini di vocazioni funzionali integrate. Al momento, infatti, l’attenzione dell’amministrazione e degli investitori è rivolta su Scalo Farini e Scalo Romana, complici le Olimpiadi del 2026”. La scommessa per San Cristoforo? “Integrarlo con la riapertura del sistema dei Navigli in un’ottica di ecologia e sostenibilità, vista la potenza dell’acqua, combinata con il verde, nell’abbattere lo smog”. Se il dibattito sullo sviluppo post Covid delle città punta a una “sanificazione” dell’ambiente urbano, dall’altro il progetto di riapertura dei canali avrebbe il pregio di ripercorrere la storia, sovrapponendosi alla visione di Leonardo da Vinci. “Potrebbe essere l’occasione per valorizzare Milano con infrastrutture miste di verde e acqua, conferendo all’ex scalo la vocazione di “seconda Darsena” e di polo di attrazione del quartiere e del sud ovest della città”.