Una città storicamente e politicamente importante come Madrid offre un gran numero di stili e scuole architettoniche, dal barocco al rinascimentale, dall’Art Déco dell’Edificio Carriòn sulla Gran Via ai grattacieli contemporanei delle Quatro Torres sul Paseo de la Castellana o il CaixaForum di Herzog & de Meuron. Non è tuttavia spontaneo collegare la capitale spagnola all’architettura brutalista, nonostante ve ne siano moltissimi esempi con storie e risultati peculiari.
Gran parte degli architetti coinvolti nei cantieri nati tra gli anni ’60 e ’80 a Madrid sono spagnoli, se non madrileni, dato il periodi storico di graduale e progressivo affrancamento della Spagna dal franchismo. Fernando Higueras Díaz e Antonio Miró Valverde sono gli autori di uno degli edifici più rappresentativi del brutalismo a Madrid: l’Instituto del Patrimonio Cultural de España è un’imponente struttura a pianta circolare, soprannominata “Corona de Espinas” per via del suo peculiare coronamento.
Tra le chiese, invece, è esemplare la Nuestra Señora del Rosario de Filipinas, di Cecilio Sanchez-Robles Tarín del 1970, fortemente ispirata dal modernismo di Le Corbusier. La struttura religiosa si presenta con volumi austeri che si sovrappongono sulla facciata esterna, mentre l’interno, coperto da forme ondulate, offre un sorprendente effetto plastico grazie all’apertura collocata in corrispondenza dell’altare. Di poco precedente è la Chiesa di Santa Ana y la Esperanza situata nel quartiere periferico di Moratalaz, dove la parete di fondo, immediatamente alle spalle dell’altare, si divide in tre suggestivi spazi concavi che accolgono altrettanti momenti del rito liturgico.
L’edificio forse più iconico è la torre conosciuta come Torres Blancas, opera di Francisco Javier Sáenz de Oíza degli anni ’60. Con i suoi 25 piani distribuiti su 71 metri, rappresenta uno dei più importanti esempi di architettura organica nel paese iberico, con elementi cilindrici che si intersecano l’un l’altro in una progressione ascensionale che ricorda alcune soluzioni metaboliste giapponesi.
Roberto Conte (1980), ha iniziato a fotografare nel 2006, esplorando inizialmente le rovine industriali nel milanese per poi espandere gradualmente il suo raggio di attività a diversi tipi di luoghi e architetture abbandonate in tutta Europa e oltre. Ha sviluppato un interesse particolare per l’architettura del ventesimo secolo: dal razionalismo all’avanguardia costruttivista fino al brutalismo e al modernismo sovietico. Le sue foto sono state pubblicate su numerose riviste e libri. Nel 2019, insieme a Stefano Perego, ha pubblicato il libro “Soviet Asia” (FUEL).