I monumenti sono messaggi scritti nella pietra che si lasciano alle generazioni successive, per pensare, tramandare valori, emozioni ed esperienze. Non tutti i monumenti nascono tali. Monumenti a volte si diventa, con il tempo e la fatica. Come nel caso dello stadio Meazza di Milano, per il quale la parola fine potrebbe arrivare prima che il tempo, l’incuria e la solitudine lo divorino, soprattutto ora che la Sovrintendenza regionale ha dichiarato che “non presenta interesse culturale” secondo i criteri della singolarità, unicità e specificità dell’opera – ed è dunque escluso dalle disposizioni di tutela. La dichiarazione ha provocato una imponente raccolta di firme e l’immediato ricorso.
Con il Meazza se ne andrebbe per sempre il mondo raccontato da Gianni Brera, quello di Peppino Meazza, “esempio del nostro entozoo disastrato e tuttavia gagliardo, con dentro tanto nerbo da strabiliare chiunque lo sottovaluti. Quando lo presero all’Inter, si invitarono i soci a ospitarlo il più frequentemente possibile per la bistecca, della quale in casa non aveva abbondanza, a diciassette anni appena compiuti, era già tanto bravo che venne retrocesso Bernardini a centrocampo. Fu lui a sollevare il nostro calcio su effettivi livelli europei.”
Epica nazional-popolare, storie di fatica, riscatto, emancipazione e gloria, scritte con le parole uscite dalla penna di Pasolini: da chi ha giocato nel fango, nella polvere, nell’erba, nelle strade. Un entozoo che diventerà laboratorio sociale sperimentale per eccellenza di internazionalizzazione con tutte le inedite miscelazioni di genti, culture, colori offerti dalla musica e dallo sport.
Come le stoviglie, le auto e gli oggetti di consumo di massa, lo stadio San Siro rappresenta un groviglio di relazioni simboliche, nelle quali estetica, zeitgeist, immaginario e identità fisica tribale arrivano a coincidere. Con la peculiarità di essere unico: fenomenologicamente lo stadio incarna e concretizza il miracolo della mixitè tanto cara agli urbanisti progressisti. Il Meazza è il simbolo di un’epoca, tanto quanto lo sono la casa a cupola abbandonata in Costa Paradiso costruita da Dante Bini per Monica Vitti e Michelangelo Antonioni o l’Istituto Marchiondi di Viganò. La nemesi di sublime e pop coincidono: là l’abbandono, qua la speculazione, o l’assenza di una politica culturale adeguata e di un senso della tradizione impediscono la corretta valorizzazione di oggetti singolari che sono testimonianze insostituibili.
La questione della singolarità, unicità e specificità dell’opera, appare difficile da contestare (nonostante quanto di fatto sancito dalla Sovrintendenza, la “non sussistenza di requisiti di carattere storico-artistico”), trattandosi di un stadio arena dove si sono svolte ininterrottamente attività sportive e culturali, che potrebbe festeggiare i 100 anni di storia con alcuni indubitabili primati: oltre a essere il più grande stadio italiano e uno tra i primi in Europa, l’unico a integrare le sue fasi di sviluppo dal 1926 al 1990, è ancora oggi incluso nella lista degli stadi d'élite della Uefa (2016).
Capolavoro di ingegneria, le fasi di costruzione sono leggibilissime: dopo una prima fase storica, a firma di Ulisse Stacchini (1925), quattro tribune rettilinee, poi raccordate da Perlasca e Bertera con l’introduzione delle “curve” (1935), lo traghettano negli anni ’50 con il progetto di Ronca e Calzolari (1955), il quale costruisce una forte immagine dal disegno unitario di arena circondata da rampe che suggerisce linee di lontana ispirazione neoclassica novecentesca. Il terzo anello è dovuto alla collaborazione tra gli architetti Giancarlo Ragazzi e Enrico Hoffer e l’ingegnere Leo Finzi (1990) – vincitore a 36 anni del concorso per il palasport di Genova, per il quale progetta la tensostruttura battendo Nervi e Daneri (1960-64) – , i quali riescono nella missione impossibile di rifunzionalizzare lo stadio, senza fermare il campionato, in tempo per i Mondiali del ’90. Giancarlo Ragazzi, scomparso nel 2017, laureatosi con Rogers nel Politecnico di Gio Ponti, è stato l’architetto di fiducia di Berlusconi e ha firmato i quartieri di Milano 2, Milano 3, Il Girasole e Milano Visconti. Il “terzo anello” venne “regalato” alla città dalla Finivest di Berlusconi appena in tempo per i Mondiali, ai tempi del grande Milan di Baresi, Gullit, Van Basten e Sacchi. Il ruvido appeal modernista dei cementi armati, il traliccio in evidenza delle travi sporgenti delle coperture e il gigantismo della megastruttura ad anello indipendente con dieci travi a cassone e 11 torri che la sostengono è smussato dalla cura dei dettagli architettonici che riescono a ottenere, nonostante una parziale asimmetria, perfetta unità del disegno, coerenza e fusione tra il nuovo intervento con la struttura preesistente. Coerenza che la bellezza delle sezioni mettono in evidenza.
L’aderenza all'estetica dal carattere spiccatamente novecentesco del beton brut e di carattere industriale lo accomuna a esempi più lontani e aulici, altri archetipi precursori ed eredi, come la chiesa di Baranzate di Mangiarotti, la drammatizzazione della periferia di Canella, per arrivare fino alla postmoderna stecca progettata da Mario Bellini per il Portello. Ma noi riusciremo a conservarlo per la storia? Il coautore architetto Hoffer insieme a Francesco Ragazzi e agli altri eredi hanno inoltrato lo scorso 16 marzo l’istanza per il riconoscimento dell’importante carattere artistico alla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la Città Metropolitana di Milano e al Ministero dei Beni Culturali, in base alla legge che, tutelando l’autore, tutela le opere di architettura contemporanea. Mentre si attende l’esito dell’istanza è esplosa la protesta di chi afferma che la richiesta di un nuovo stadio, più che a una reale necessità sportiva, sia una ennesima operazione immobiliare legata all’incremento agli indici edificatori sanciti dal piano di governo del territorio. I diritti volumetrici concessi prevedrebbero circa 50.000 mq di cemento in più, a compensazione degli oneri sostenuti dalle società promotrici. Un risultato non esattamente in linea con la narrazione e la propaganda green: si annuncia un autunno caldo.
Roberto Conte (1980) ha iniziato a scattare foto nel 2006, esplorando luoghi abbandonati in Italia e all'estero. Nel corso degli anni la sua attenzione si è progressivamente focalizzata sulle architetture del XX secolo, dalle strutture razionaliste al modernismo nel Dopoguerra, fino all'architettura contemporanea. Collabora con studi di architettura e design, istituzioni e artisti. Insieme a Stefano Perego ha pubblicato nel 2019 il libro "Soviet Asia" (FUEL), dedicato al Modernismo Sovietico in Asia Centrale. Ha tenuto conferenze su fotografia di architettura, patrimonio industriale e architettura sovietica in numerose università e istituzioni in Italia, Danimarca, Russia e Kazakistan.