A New York UN-Habitat ha organizzato una giornata di incontri e dibattiti per esplorare soluzioni innovative per le città minacciate dall'innalzamento del livello del mare. Questo è stata occasione per presentare Oceanix City, una città galleggiante concepita da un gruppo di esperti guidato da Bjarke Ingels e il suo studio. Se pensiamo a dei progetti urbani concepiti sull’acqua, il primo esempio che ci viene in mente è sicuramente il mitico piano di Kenzo Tange per la baia di Tokyo. Per rispondere al boom demografico della capitale giapponese avvenuto nel secondo dopoguerra, l’architetto propone una infrastruttura metabolista in grado di accogliere altri 5 milioni di persone. Purtroppo (o per fortuna) la visione del maestro giapponese non è mai stata realizzata e può rimanere oggi un’utopia celebrata dagli accademici di tutto il mondo.
La sorridente utopia galleggiante di BIG
BIG presenta a New York una città galleggiante, resiliente e sostenibile. È questo l’habitat urbano del futuro o è una semplificazione di un problema complesso?
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- Salvatore Peluso
- 09 aprile 2019
Se consideriamo invece città effettivamente costruite sull’acqua, pensiamo invece subito alle isole che a Dubai riproducono la forma del mondo. Spettacolare processo di speculazione immobiliare, queste isole mettono a profitto delle porzioni della superficie terrestre che fino a poco tempo fa solo i progetti utopici avevano pensato di occupare (in altri contesti e con scopi ben diversi). Per affrontare i drastici cambiamenti dovuti al cambiamento climatico, sembra che le città galleggianti possano essere una reale alternativa all’urbanizzazione lungo le coste, che sono sempre più soggetto di catastrofi ambientali. Gli insediamenti flottanti propongono modelli costruttivi più leggeri, flessibili, sostenibili, e adattivi rispetto al cambiamento del clima. Negli ultimi anni abbiamo visto fiorire in tutte le riviste – specializzate e non – proposte e visioni di questo genere, la ultima delle quali è quella presentata da BIG.
“Entro il 2050, nove delle dieci città più grandi del mondo saranno esposte all'innalzamento dei mari,” ha raccontato Bjarke Ingels durante una recente tavola rotonda organizzata a New York da UN-Habitat. La città modello proposta dovrebbe essere zero-waste, energy-positive e self-sustaining, oltre che multiculturale e alla portata di tutti. Le immagini diffuse promettono un futuro felice e sicuramente “resiliente”: orti urbani e banchi di frutta, droni, moto d’acqua e windsurf (ma con quale vento?). Ma come può un’accozzaglia di stereotipi sul futuro – scritti e renderizzati – convincerci che il progetto presentato da BIG non sia diverso da un’altra operazione immobiliare? Chi ci garantisce che queste città galleggianti non diventeranno un’ennesima enclave per ricchi?
Nell’articolo “Stop seeing climate change as an opportunity for architecture”, pubblicato dalla piattaforma online Failed Architecture, lo scrittore e editor Joshua McWhirter smonta in modo preciso la retorica di BIG, che nel progetto The Big U spaccia il suo modello “resiliente” come strumento di valorizzazione economica di Lower Manhattan. Scrive McWhirter: “il piano vuole mitigare i danni causati dalle tempeste, ma anche stimolare la crescita economica con l'aggiunta di spazi pubblici molto ambiti, finanziati in parte con soldi privati.” L’utopia sorridente che ci propina BIG non smentisce il fatto che anche gli effetti del cambiamento climatico saranno distribuiti in modo iniquo, colpendo soprattutto le classi meno abbienti e le popolazioni del Sud del Mondo, mentre pochi fortunati potranno continuare a non preoccuparsi di dover mutare il proprio stile di vita.
Non possiamo permettere che una questione così complessa quale il cambiamento climatico sia ridotta a banalità e a immagine pubblicitaria. Il progetto Oceanix si pone in maniera antitetica al concetto di Iper-Oggetti, che il filosofo inglese Timothy Morton concettualizza per rappresentare la complessità di fenomeni come il riscaldamento globale. Sono: “oggetti di grande scala e temporalità che superano le capacità percettive degli esseri umani e sono uno strumento profondo e radicale per riflettere e imparare a convivere con il riscaldamento globale e le sue connessioni.”
Progetti, o visioni, come questa dovrebbero stimolarci ad affrontare la questione in modo problematico, critico e approfondito. Al posto delle immagini semplificate preferiremmo ricevere diagrammi e dimostrazioni che raccontino un’operazione complessa come quella proposta. Di questo abbiamo bisogno, oltre a messaggi essenziali, forse ingenui, ma decisi e in grado di darci determinazione, come i cartelli del milione e mezzo di ragazzi che il 15 marzo scorso sono scesi in piazza in centinaia di città del mondo per richiedere un cambiamento sistemico, che deve essere radicale e repentino.