di Alessandro Benetti
La piscina del Centro Sportivo Bocconi, progettata da Sanaa, e quella del Centro Sportivo Cambini Fossati, dell’ingegner Carlo Rotellini per Technion, hanno aperto al pubblico milanese a poco più di un anno di distanza, rispettivamente a fine 2021 e a inizio 2023. La prima, realizzata da uno studio di meritata fama internazionale, è un’architettura contemporanea di qualità, che convince per la monumentalità dei suoi spazi, spesso a doppia altezza, e la raffinatezza delle sue scelte materiche, dalla lamiera ondulata delle facciate al cemento a vista degli interni. La seconda, concepita letteralmente without architects, è un anonimo capannone, dall’immagine urbana indecifrabile e dagli ambienti angusti e sottodimensionati, se non sul piano normativo sicuramente su quello pratico.
La prima può contare su una vasca principale da 50 m di lunghezza, che una barriera mobile può frazionare all’occorrenza in sezioni di lunghezza minore. La vasca più grande (meno piccola?) della seconda è un invaso di 25 m e sole 6 corsie. Entrambe sono aperte a tutti, ma la Bocconi è di proprietà e gestione privata, e un ingresso singolo costa il doppio della Cambini Fossati, comunale e gestita dalla società partecipata Milanosport. Così, alla Bocconi si nuota spesso solitari o quasi, mentre alla Cambini Fossati a volte non si entra neppure perché, purtroppo, la capienza massima è stata raggiunta.
L’occasione sprecata della Cambini Fossati – infrastruttura peraltro preziosissima nel quartiere denso e a reddito medio-basso di via Padova – è rappresentativa di una più generale difficoltà del Comune di Milano a realizzare edifici pubblici di buona qualità architettonica, solo in minima parte giustificabile con la mancanza di budget. Rattrista particolarmente perché a Milano esistono le piscine più belle d’Italia, che si sono depositate nel tessuto urbano soprattutto tra gli anni ’20 e gli anni ’70 del secolo scorso.
Milano è un caso quasi unico tra le metropoli europee perché il suo centro non affaccia sul mare o su un lago e non è attraversato da un grande fiume, però, può ambire a essere ‘città d’acqua’
Il sistema delle piscine milanesi si è consolidato in due stagioni precise, il ventennio fascista e gli anni ’50 e ’60 del boom economico e demografico. In entrambe le epoche, la maggior parte delle piscine pubbliche sono state progettate dall’ufficio tecnico comunale e da due suoi componenti, prima Luigi Lorenzo Secchi (1889-1992), che ne fa parte con ruoli di crescente importanza dal 1925, e poi Arrigo Arrighetti (1922-1989), che vi lavora dai primi anni ’40 al 1979. Così, per stili e atmosfere le piscine milanesi possono facilmente essere suddivise in due gruppi chiaramente distinti: quelle novecentiste e poeticamente dechirichiane di Secchi e quelle moderniste e gioiosamente nazionalpopolari di Arrighetti.
Rientrano nella prima categoria la Romano (1929), dove i tre piccoli padiglioni dell’ex-ingresso, dall’impianto simmetrico e dalle decorazioni appena accennate, fanno da fondale scenico ai riti balneari; la ex-Caimi (1937-1939), oggi Bagni Misteriosi, la cui presenza è segnalata nel paesaggio urbano dalla torretta e dalla ciminiera dell’austera palazzina in mattoni degli ex-bagni pubblici; e soprattutto la Cozzi (1933-1935), la più immensa di tutte con la sua vasca olimpionica, la più lussuosa con i suoi rivestimenti interni in marmo di Siena, e la più avanguardista con i lucernari (un tempo) trasparenti e apribili, che ne attraversano la monumentale volta a botte. Sono opera di Arrighetti, invece, l’organicissima Argelati (1962), dove si arrotondano tanto il volume dell’ingresso-bar, sormontato da una terrazza-solarium, quanto gli spigoli delle vasche chiaramente immaginate per il loisir e non per le competizioni; e ancora la Solari (1963), tensostruttura a sella audace ma anche amichevole, sospesa a mezz’aria all’interno del parco omonimo.
A questo nucleo bi-autoriale si aggiungono le ottime realizzazioni puntuali di autori di grande fama – il Lido di Cesare Marescotti (1931), in origine privato e ispirato ai parchi di divertimento americani, e la Mincio di Pier Luigi Nervi (1964), il cui cielo a cassettoni in calcestruzzo sembra galleggiare su di un nastro vetrato – o quasi sconosciuti – la Scarioni degli architetti dell’ufficio tecnico comunale Gino Bozzetti e Egizio Nichelli (1958), dalle forme elegantemente streamlined.
Questo patrimonio prezioso, certamente sovradimensionato e poco efficiente per gli standard dei nostri giorni, si è profondamente degradato nel tempo. Al raffinato restauro-ristrutturazione della Caimi (di Michele De Lucchi, Giovanna Latis, Elena Martucci e Nicola Russi, concluso nel 2016), fanno da contraltare la maldestra verniciatura a colori sgargianti dei montanti metallici della Solari, la mutilazione della Romano, privata nel corso dei decenni di quasi tutti i suoi corpi di fabbrica, e il sostanziale abbandono in cui versano oggi, tra le altre, l’Argelati, il Lido e la Scarioni. In parallelo, gli impianti di nuova costruzione non riescono in alcun modo ad eguagliare la qualità, né a compensare le quantità, dei loro antenati, Si è già detto del flop della Cambini Fossati, ma anche la piscina da tempo in costruzione nella centralissima via Fatebenesorelle, in zona Brera, non promette bene.
Il declino evidente del sistema delle piscine pubbliche milanesi non è solo foriero di nostalgie, comprensibili ma forse un po’ sterili, per un’epoca di maggiori e migliori investimenti nelle strutture del welfare cittadino. Il tema è di attualità anche perché parla di un’occasione (per ora) sprecata per la metropoli del presente e del futuro. Architetture, progetti urbani e politiche ambientali nelle più importanti città d’Europa si concentrano sempre più spesso sulla ricerca di un rapporto, mai esistito o da lungo perduto, con le loro acque. A Oslo si prende il sole sulla scogliera artificiale della Opera House di Snøhetta già dal 2007; a Stoccolma White Arkitekter ha recentemente riprogettato il nodo infrastrutturale che separa l’isola di Gamla Stan da Södermalm come un solarium a cavallo tra lago e mare; a Zurigo si nuota da sempre nelle acque del Limmat, e dall’estate del 2024 si può fare lo stesso anche a Parigi, nella Senna ripulita con un investimento di circa 1,4 miliardi di euro. L’elenco potrebbe continuare a lungo.
Milano è un caso quasi unico tra le metropoli europee perché il suo centro non affaccia sul mare o su un lago e non è attraversato da un grande fiume. È uno svantaggio notevole, in tempi di bollori climatici e di isole di calore urbane. Anche Milano, però, può ambire a essere “città d’acqua”, a patto che investa con costanza e visione in due direzioni. Da un lato, è necessario valorizzare la rete multiscalare delle tantissime acque metropolitane, naturali e artificiali, che si estende dal Ticino all’Adda, grandi fiumi alpini che la delimitano a ovest e a est, si completa con l’Olona e il Lambro, corsi d’acqua minori e in parte effettivamente urbani, si incanala nei navigli radiali – la Martesana, il Naviglio Grande e il Naviglio Pavese – e infine si dilata nei bacini dell’Idroscalo e della Darsena. Dall’altro, è urgente concentrarsi sulle piscine (davvero) pubbliche, quelle a buon mercato e accessibili a tutt*, che di questa ricchezza sono democratiche “epifanie di quartiere” puntuali e attrezzate, rimettendo a nuovo i meravigliosi impianti storici e realizzandone di nuovi, altrettanto lussuosi e sperimentali.
Immagine di apertura: Piscina Cozzi, installazione di Maurizio Cattelan, 2021