Stefano Mancuso: L’intelligenza delle piante chiede l’audacia dei progetti

Domus incontra il botanico, che racconta come le piante possono salvare le città in crisi, contestando la staticità e l’antropocentrismo delle visioni dominanti. Facendolo con la teoria e con i progetti.

Non è occasione comune incontrare qualcuno che quotidianamente possa dire di lavorare nell’ambito delle rivoluzioni copernicane. Ma questo è il caso con Stefano Mancuso, docente di arboricoltura generale e etologia vegetale all’Università di Firenze, da tempo impegnato nell’esplorazione di quella che si definisce intelligenza delle piante – un’intelligenza evolutiva la cui caratteristica principale è quella di non appartenere a un singolo sistema nervoso ma a quello definibile come “cervello diffuso” – dirigendo il Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale.

È una rivoluzione che sta nel partecipare ad una graduale decostruzione di una visione antropocentrica della sfera del vivente – non solo le piante fanno più e meglio di noi, ma lo fanno anche collettivamente – specialmente in un momento in cui l’essere umano si mostra come il principale danneggiatore tanto del pianeta quanto di se stesso. Ed è per questo che con Mancuso abbiamo voluto parlare del prodotto antropico per eccellenza, la città, tracciando un bilancio della sua sostenibilità e vivibilità, oggi. Mancuso infatti ha anche una lunga storia di collaborazioni su progetti d’architettura, urbanistica e paesaggio, oltre ad aver brevettato dispositivi come le Fabbriche dell’Aria, dove sono le piante a garantire la depurazione dell’aria respirata all’interno degli edifici.

La fabbrica dell’aria, primo prototipo installato negli uffici di Milano di Green Media Lab. Green Media Lab srl SB

A livello urbano, invece, sono ormai anni che leggiamo di progetti di greening pensati per le città di tutto il mondo, sui quali continuiamo a farci domande in termini di efficacia, quando non di possibilità di vedere effettivamente la luce, ed è da lì che parte Mancuso: “Si tratta di progetti molto ‘parlati’, ma poi il numero di alberi messi effettivamente a dimora è basso; oltretutto bisognerebbe poi seguirli per 3-4 anni, se si vuole che l’investimento non vada sprecato, e spesso questo non succede. Dove mettere questi alberi, poi? L’80% della CO2 nel mondo è prodotto dalle città, che occupano meno del 2% della superficie terrestre. Ed è in queste isole di calore che il riscaldamento globale aumenterà esponenzialmente”.

Quando si parla di città, ci dice, bisogna imparare a ragionare ad una scala superiore di interi ordini di grandezza, anche in termini di fabbisogno di vegetazione e, con l’eccezione delle aree periurbane, gli spazi canonici (parchi, giardini, aiuole) disponibili per assecondare questa necessità sono esauriti. “A questo punto, non resta che ragionare su cosa occupa le nostre città: prima di tutto edifici, ma soprattutto strade, alle quali ad oggi praticamente non si sta facendo nemmeno il minimo accenno; strade asfaltate per la maggior parte, perché figlie di un’urbanistica nata per favorire il traffico autonomo. In una città moderna dobbiamo pensare invece a ridurre il traffico, a renderlo quasi esclusivamente pubblico: permetterebbe la riconversione di molte strade in veri fiumi di verde. Dobbiamo immaginare viali concentrici (come quelli di Milano, NdR) che di colpo scompaiono e vengono riconvertiti in parchi: a prescindere dalla bellezza e dal miglioramento della vita, gli effetti sull’ambiente sarebbero significativi”.

 

Ma sono i progetti stessi che dovrebbero essere più audaci, ci dice Mancuso, si tratta di agire in maniera determinata: mentre città come Parigi riducono lo spazio della carreggiata per auto a favore di biciclette e monopattini, l’Italia sembra ferma nell’inazione, in una convinzione che chiudere strade e centri urbani sia impossibile. “Ma a pensarci, nessuno lamenta più le chiusure dei centri storici, le ZTL e provvedimenti simili” ribatte. “Il primo sindaco a farlo è stato Jaime Lerner, il giovanissimo architetto sindaco di Curitiba, in Brasile: lo ha fatto senza avvertire nessuno, un venerdì sera del 1972, con alcune squadre di operai, e ha resistito 6-7 mesi piantando alberi e richiudendo varchi, finché i commercianti si sono accorti che la cosa non li stava penalizzando, anzi. Noi infatti non abbiamo tempo, non possiamo pensare di pianificare pian piano, le città sono il primo luogo da cui partire, e il luogo che può fornire le soluzioni: i sindaci hanno gli strumenti. Da che Lerner lo ha fatto, è poi diventato uno standard, e noi dobbiamo cominciare così”. 

 

È una visione che risponde prima di tutto a problemi di ordine sociale: “La mortalità del luglio 2022 è aumentata tra il 25% e il 28% rispetto agli anni precedenti, e questo a causa del caldo. Le ondate diverranno sempre più frequenti e forti, e con temperature più alte per tempi più lunghi aumentano i problemi cardiovascolari: le persone più anziane, deboli, povere muoiono, e muoiono soprattutto negli ambienti urbani. Agire nella direzione di cui parliamo ha quindi un effetto di prevenzione, nell’ambito della salute pubblica. Altrimenti quali soluzioni restano? O si possiede un condizionatore, oppure se in casa ci sono temperature superiori ai 30 gradi per periodi lunghi aumentano le possibilità di morte. Quanti poi hanno un condizionatore? Molte abitazioni ne sono prive, e spesso sono quelle mal isolate: non ho dati ma non mi meraviglierebbe di leggere il 60-70%. Sono i parchi, gli alberi a funzionare come condizionatori d’aria: la traspirazione d’aria attraverso le foglie è un processo endotermico, che assorbe calore; attorno agli alberi la temperatura è di 5-6 gradi più bassa”.

Nessun paese ridurrà di sua iniziativa le emissioni di CO2, quindi la sua ricchezza, fino a che i danni non supereranno in valore questa ricchezza.

Stefano Mancuso

Resta però evidente che, ancora più dopo il periodo pandemico, la tendenza in aumento è sempre quella a dipendere dal trasporto individuale. Magari ibrido o full electric, ma in ogni caso non collettivo. 

“Chiaramente” ci dice Mancuso, “nessun paese ridurrà di sua iniziativa le emissioni di CO2, quindi la sua ricchezza, fino a che i danni non supereranno in valore questa ricchezza. Così agiscono le persone, dicono ma non rinunciano poi ad alcuna comodità. Con i veicoli elettrici, il risparmio ambientale c’è ma è piccolo. È proprio il traffico a costituire un problema strutturale, questi veicoli non ci devono proprio essere: una città moderna non deve contare sul traffico autonomo, può resistere ancora 5-10 anni così ma poi non ce la farà. La politica locale, poi, non riesce ad essere lungimirante, specie là dove i sindaci hanno il solo orizzonte delle elezioni, e questo impedisce di attuare provvedimenti fondamentali. Ma se vogliamo ripetere un esempio, nel disincentivare il trasporto individuale Parigi fa scuola”.

E Milano? “Milano ha il vantaggio di un verde diffuso, ma è sempre troppo poco! È l’unica città con un respiro europeo di trasformazione, ma tutto ciò che sto vedendo dal punto di vista urbanistico mi pare abbastanza già visto, e la quantità trasformata in termini naturali non mi sembra eccezionale. Ci sono casi che smentiscono questa tendenza, ma sono casi specifici: bisognerebbe prendere di petto la questione in maniera efficiente o, meglio, efficace”.

Mancuso non è troppo milanese di frequentazione, tiene a premettere, e potendone parlare con cognizione di causa fa riferimento a Welcome Milano, il complesso di spazi per il lavoro che sta realizzando con Kengo Kuma and Associates negli ex edifici Rizzoli: “È un edificio che avrà impatto zero, e questo è fondamentale”, ci dice. “Il cemento come materiale da costruzione è ancora uno dei maggiori produttori di CO2 a causa della sua filiera, da produzione a messa in opera. Chi costruisce integralmente o a maggioranza in legno non solo sta riducendo la CO2 ma la sta stoccando: una trave di legno è un oggetto che immagazzinerà per 50-70 anni tutta la CO2 che la pianta aveva immagazzinato. L’edificio così non è soltanto neutrale in bilancio C02: è negativo. E su Milano non vedo particolare attenzione nella costruzione degli edifici da questo punto di vista: vedo ancora grattacieli completamente vetrati, chiusi, per niente al passo coi tempi, con la climatizzazione ad altissimo consumo energetico che richiedono”.

Su Milano non vedo particolare attenzione nella costruzione degli edifici da questo punto di vista: vedo ancora grattacieli completamente vetrati, chiusi, per niente al passo coi tempi, con la climatizzazione ad altissimo consumo energetico che richiedono.

Stefano Mancuso

Mancuso, come si è capito, non limita la sfera della sua ricerca alla teoria e alla politica, anzi, espande questo spettro all’operatività, alla progettazione, collaborando con molti architetti, tanto con progetti tecnologici come le Fabbriche dell’aria, quanto con consulenze integrate di più ampio respiro. “Mi permetto di citare Renzo Piano, di cui sono molto amico, che mi ha chiamato in molti casi, come il Grand Hopital de Paris: certo, adotterà molte Fabbriche dell’aria, ma il mio contributo ha coinvolto tutto l’aspetto di sostenibilità, degli effetti che le piante possono portare in un progetto del genere. Ormai è molta la letteratura scientifica che conferma come anche solo la visione delle piante da parte dei degenti riduca i tempi di guarigione e degenza (un fondamento dell’architettura biofilica, NdR). Le piante oggi dovrebbero far parte di qualunque processo progettuale che si voglia serio: Piano infatti ha pensato un ospedale ricoperto da piante, da un intero parco pubblico che parte dal livello del terreno e sale fino al tetto”.

La domanda che sorge spontanea è se a questo punto esista anche un margine per l’attivazione individuale, sempre che possa avere un senso, per rendere più sano un ambiente urbano. E la risposta è sorprendentemente positiva: “Cose banalissime, strumenti di progettazione a livello anche familiare come ricoprire una facciata con piante rampicanti. E poi, assumere una visione più ampia rispetto a quello che intendiamo quando si parla di efficientamento energetico: ad esempio, ora in Europa dovremmo parlare di come sia proprio attraverso le piante che lo si ottiene, e la cosa non sta succedendo. In uno scenario come l’Italia, poi, il quadro si rende anche più complicato visto il grande volume di patrimonio immobiliare antico – a Firenze dove vivo, per esempio – ma va fatto un ragionamento di bilancio, pluridecennale se non plurisecolare. Prendiamo proprio un edificio fiorentino del‘500, fatto di pietra e legno: per 500 anni ha conservato, stoccato CO2. Un edificio tipico olandese o svedese, invece, abbattuto ogni 50 anni, ha un costo ambientale molto alto con questo continuo fare e disfare. Un edificio con 10 ricostruzioni in 500 anni ha un bilancio globale molto più pesante, in disaccordo con la descrizione che si tende a fare, sempre legata alla prospettiva della nuova costruzione”. 

Immagine di apertura: Stefano Mancuso

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