“Arredare una casa significa, per un architetto, istituire una consuetudine con chi l’abita, una vera collaborazione nel realizzare una espressione di gusto che oltrepassi le necessità d’uso e si estenda ad un fatto di cultura, ad una solidarietà di gusti e di passioni fra cliente ed architetto”. Ma oltre che il teatro di un idillio con la committenza, l’appartamento anni ’20 di Milano in cui Ponti mette piede – un piede non certo leggero – nel 1952 era diventato anche teatro di un lavoro corale di architetto, artigiani, artiste e artisti che esprimevano tutti un desiderio di ritrovare la meraviglia attraverso un lavoro fatto di radicale intellettualità e ricerca quasi ossessiva della raffinatezza dei dettagli.
Il nuovo proprietario, che è arrivato qui nel 2019, di tutto questo non ha potuto trovare che la struttura, e tutto ciò che ad essa poteva restare attaccato: anzi, nemmeno quest’ultima frase è totalmente corretta, perché nello stesso anno l’intero contenuto di arredi e pezzi d’arte della casa è andato via a prezzi più che astronomici in una chiacchieratissima asta londinese, e con loro sono partite anche due boiseries e persino le piastrelle del bagno.
Il perché queste componenti avessero un valore tanto difficile da stimare, sta proprio nella storia di un progetto tanto particolare, che il proprietario ha ricostruito con Salvatore Licitra, nipote di Ponti, per poi procedere al suo restauro, in uno spirito di preservazione – e non di ricostruzione da casa-museo – conservando questo carattere e facendolo interpretare là dove la materia era mancata da un giovane duo di designer franco-libanesi, David et Nicolas.
La “Casa di fantasia” – la casa Lucano, per una coppia formata da una collezionista d’arte e appassionata di ceramiche, e dal dirigente di un’azienda all’epoca lanciata nelle ricerche informatiche, “un internet guy di adesso”, dice il proprietario – sta in un periodo di transizione per Ponti, tra le sue realizzazioni più borghesi e la fase rappresentata dalla casa milanese di via Dezza e Dalla Villa Planchart a Caracas, che peraltro di questo progetto eredita molte soluzioni: la “fantasia” è tanto nello spazio quanto nel decoro, e complice principale di Ponti in questa operazione è il suo ebanista di fiducia, Giordano Chiesa. Con lui, Ponti concepisce e realizza l’esplosione di illusioni ottiche che caratterizza l’appartamento.
Prima di tutto l’ingresso minimale, la “gallerietta prospettica” che subito confonde le proporzioni della casa, con le pareti in acero e il soffitto in salita con quei tagli per le luci – omaggio a Fontana per altro presente nella collezione originaria – che all’interno sono voltati “all'infinito”, cioè senza spigoli visibili e asimmetricamente profondi in modo che non si veda il tubo al neon che contengono; su di essa, le porte e gli specchi sospesi a suon di scuretti su sfondi di vetro o nicchie di legno.
Una volta che si guadagna il soggiorno, ci si accorge che in realtà di salotti ce n’è una serie, tutti ibridi, tutti messi a sistema da un’altra macchina visuale totalmente scenografica e teatrale: le pareti che dividono questa infilata di camere allineata lungo la facciata sono tutte forate, creano un cono prospettico che una volta allineava la sequenza di boiseries in radica e pareti a stampa di Fornasetti concludendosi in una nicchia espositiva, e oggi mantiene quello spirito con i nuovi rivestimenti in legno di David et Nicolas; Fornasetti è l’altro grande complice nell’operazione come lo era stato per l’Andrea Doria e il negozio Dulciora, solo per citare due esempi.
Nello specifico, le stanze sono tutte ibride, perché Ponti nel soggiorno strappa via Stucchi e orpelli, contromura il bovindo in una curva separata da scuretti e – audacia per l’epoca – fa saltare la separazione dalla sala da pranzo; il guardaroba poi è guardaroba-salotto per la padrona di casa, e lo studio del marito è studio-salotto, fino ad arrivare alla camera, gemella simmetrica del soggiorno-salotto.
Il bagno era stato anche una grande scena di performance per il gruppo di questo progetto, per tecnologia (i porta asciugamani sono collegati all’impianto dell’acqua calda) e per arte, anche qui: le piastrelle sono di Fausto Melotti, vengono staccate e vanno all’asta anch’esse, ma quelle del pavimento restano sotto una provvidenziale moquette, il proprietario le recupera, restaura e ricolloca a creare una porzione di parete che ricrei coi sanitari rosa lo spirito di meraviglia totalizzante dell'origine, lasciando un cemento grigio a fare da “rigatino” alla Cesare Brandi laddove le lacune non sono colmabili.
Ed è qui che – oltre agli altri nomi come Tapio Wirkkala e Romano Rui, che Ponti coinvolge In quegli anni in Triennale come in questa casa – fa il suo ingresso il nome più rilevante di questa vicenda, proprio per l'eccezionalità del suo contributo e soprattutto per la sua assenza fisica nella casa di oggi, che però è presenza fortissima che ne ha guidato il restauro: Edina Altara. All’artista sarda Ponti dedica una reprise entusiastica del suo primo articolo sulla casa – dove si era sperticato in lodi per Fornasetti – perché lei è quella che tra gli altri ha dato al tema della fantasia, della mitologia l’espressione più potente e diretta.
Per i suoi specchi dipinti, anch’essi partiti all’asta, dove il cavallo di Troia esce fisicamente dalla testa di Odisseo, Ponti prova invidia feroce – “io son morto di gelosia quando ho visto questa ‘invenzione’ bellissima. Essa doveva venire a me! È come mi fosse stata rubata prima che l'avessi. Dovevo pensar io questa cosa! Maledizione!” – mentre per tutte le altre sue espressioni, meraviglia. È qui che si riassume lo spirito che questa casa mantiene, e che chi l'ha presa ora in affidamento ha seguito per trasportarla negli anni ‘20 del ventunesimo secolo: “l’udito interiore per ascoltare le voci delle leggende, la possibilità di incantarsene e ricrearle, e la fantasia e la parola per raccontarcele”.
Immagine d’apertura: veduta dello “studio-salotto”, aperto sulla "gallerietta prospettica" d'ingresso. Foto Daniele Ratti