Questo articolo è pubblicato su Domus 1079, in edicola a maggio 2023.
Vista dall’alto, la tomba Brion – luogo di sepoltura della famiglia Brion nel cimitero di San Vito d’Altivole, nella campagna veneta – sembra un sito di scavi archeologici: un giardino in cui le pietre tombali giacciono nell’erba come rovine o addirittura frammenti di un animale preistorico. Risultato di uno scrupoloso e lungo processo di continui cambiamenti a partire dal 1968, il progetto è giunto allo stato attuale solo all’accidentale morte di Carlo Scarpa in Giappone nel 1978, assecondando la sua visione dell’architettura come lungo processo di continui cambiamenti a margine di una crescita senza fine.
Le cose le vedo solo se le disegno
Carlo Scarpa
Quasi 20 anni prima, Scarpa aveva dato dimostrazione del suo talento profetico con la trasformazione di palazzo Abatellis, nella prestigiosa sede del Museo Regionale di Palermo. Nella sistemazione dei celebri capolavori del Laurana e di Antonello da Messina dovette affrontare l’impresa della collocazione nella sala del Laurana del maestoso affresco del Trionfo della Morte (1446), che inserì ampliando la parete della cappella adiacente all’edificio. “Le cose le vedo solo se le disegno”, diceva Scarpa. Se si osservano gli innumerevoli disegni del suo archivio si coglie la sua idea di concentrare l’attenzione dei visitatori sui particolari che raffigurano la vita quotidiana.
Tornando ad Altivole, Scarpa cercò di riaffermare il trionfo della vita sulla morte, orchestrando la grandiosa idea di un giardino di delizie di oltre 2.200 m². Acqua, terra, luce e aria si fondono con le costruzioni di calcestruzzo a vista (il sepolcro, un padiglione di legno sospeso su uno specchio d’acqua popolato di ninfee e la cappella) per creare una splendida Gesamtkunstwerk, un’opera d’arte totale che invita il visitatore alla meditazione. I ruderi di calcestruzzo grezzo spingono all’esperienza tattile: la loro superficie scabra, intagliata di geroglifici d’incerta decifrazione, suggerisce una concezione manuale dell’arte quasi impossibile da ritrovare nella tendenza odierna all’architettura curvilinea e scintillante, dove le superfici sembrano schermi su cui galleggiano immagini senza soluzione di continuità.
L’attrazione di Scarpa per la decorazione dentellata e a stampo (come quella usata per la Banca Popolare di Verona) richiama l’attenzione a margini dove i particolari svelano la presenza di Dio (o del diavolo), permettendo la comprensione delle complesse narrazioni sottese alla forma. Il culmine di questo atteggiamento si riscontra nel miracolo dell’ambiente cubico traforato nella piccola addizione alla Gypsotheca di Possagno, certamente uno dei suoi capolavori indiscussi.
Nell’opera dell’architetto ricorre una propensione per la qualità materica che connota i dettagli e le soluzioni d’angolo e che suggerisce una concezione manuale dell’arte.
La varietà della gamma di aperture tridimensionali illumina le pareti della piccola sala dove i gessi bianchi delle sculture del Canova ricevono la giusta gradazione di luce. Affascinato dal bianco gesso canoviano costellato dai punti neri che facevano da guida alla traduzione in marmo, Scarpa affermò il suo intento di “estendere il bianco delle statue alle pareti e ritagliare l’azzurro del cielo”. Lucernari spaziali – cubi e prismi che ritagliano il cielo e definiscono tramite la luce i vertici dello spazio dematerializzato – confermano la natura della Gypsotheca in quanto opera fatta di frammenti, dove vengono lasciati a vista giunti, grana delle superfici, ritagli e interruzioni.
Immagine di apertura: Carlo Scarpa, Tomba Brion, San Vito d’Altivole (1978). Foto di Filippo Poli