Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1068, maggio 2022.
Per quanto oggi possa sembrare strano, solo una quindicina di anni fa il profilo di New York era quasi esclusivamente fatto di grattacieli per uffici: a Lower Manhattan, One Chase Manhattan Plaza, Woolworth e 70 Pine Street; a Midtown, l’Empire State, il Chrysler e il 30 Rockefeller Plaza; a Brooklyn, praticamente nulla, perché fino a quando la città non si fu ripresa dalla crisi finanziaria mondiale, i suoi punti di riferimento verticali più riconoscibili non erano posti in cui la gente vivesse.
Gli edifici per appartamenti, per lo più, erano bassi come erano stati 70 anni e più prima, quando Le Corbusier aveva visitato New York per la prima volta solo per liquidare gli edifici che vedeva come “troppo piccoli”. Non è più così.
A partire dal 2011, con il 432 di Park Avenue di Rafael Viñoly, una serie di edifici residenziali sempre più alti e sempre più bizzarri ha punteggiato il paesaggio urbano. Mentre ne sono nati altri più alti (il One57 di Christian de Portzamparc nel 2014, il 53West53 di Jean Nouvel nel 2019 e il numero 111 della 57a West Street di SHoP nel 2021), ce n’è uno esemplare dell’ambizione architettonica che ancora attira l’attenzione come pochi altri e che rappresenta il culmine più straordinario di quel “profilo da puntaspilli”, come Henry James definì una volta la celebre silhouette di Manhattan.
Il numero 56 di Leonard Street vide la luce nella vecchia New York, ancora priva di grattacieli residenziali, e si radicò sul terreno mentre il profilo della città iniziava la sua particolare trasformazione. Nel 2007, Philip Schmerbeck era appena arrivato a Manhattan: un architetto trentaduenne, assunto dalla sede americana di Herzog & de Meuron. “È stato il mio primo progetto per lo studio”, ricorda Schmerbeck, oggi direttore della sede americana. “Ci ho lavorato per i dieci anni successivi, fino al completamento”. In realtà, quel già lunghissimo periodo di realizzazione, dall’ideazione all’entrata in funzione, è stato anche più lungo: solo questa primavera, dopo un’attesa che sembrava infinita, un globulo d’acciaio a specchio di Anish Kapoor è stato collocato all’angolo nordest dell’edificio, compiendo la visione originale dei progettisti 15 anni dopo l’incarico.
Quando lo studio iniziò a lavorarci, non aveva molti riferimenti. All’epoca, l’unico importante grattacielo d’appartamenti di New York che fosse opera di un progettista di primo piano era il numero 8 di Spruce Street di Frank Gehry, nel vicino Financial District. Herzog & de Meuron, da parte loro, avevano completato solo un anno prima un importante palazzo residenziale a NoHo, al 40 di Bond Street, che però, nonostante la forte identità grafica e la materialità scintillante, era relativamente modesto per dimensioni e complessità logistica.
Il nuovo progetto sarebbe stato del tutto diverso dal precedente: il costruttore Alexico Group aveva acquistato il lotto all’angolo di Church Street non solo per l’ottima posizione nel promettente quartiere di Tribeca, ma anche per la sua favorevole situazione giuridica: un’anomalia del regolamento di zonizzazione avrebbe permesso ai proprietari di costruire a un’altezza eccezionale. Gli architetti avrebbero dovuto pensare in grande, ma molto in grande, creando un esempio di edilizia residenziale diverso da tutti quelli che la città avesse mai conosciuto. Gli unici vincoli dati dalle dimensioni e dalla tipologia vennero adottati dallo studio come punto focale dell’elaborazione del progetto. “Sapevamo che volevamo dare espressione alle singole unità abitative in un modo immediatamente leggibile”, ricorda Schmerbeck.
Mentre il tradizionale grattacielo per uffici privilegia l’uniformità, mascherandone le solette standardizzate dietro un unico involucro uniforme, Schmerbeck e i suoi colleghi decisero che un grattacielo residenziale dovesse essere proprio il contrario, dando espressione distinta a ciascun appartamento. Qui il gruppo di lavoro non era del tutto privo di un quadro di riferimento. Infatti, l’idea delle “case nel cielo” ha circolato a lungo nell’ambiente professionale, a partire dalla parodistica e memorabile proposta di SITE: le Highrise of Homes del 1981, una serie di case a schiera accatastate su una scaffalatura.
L’accumulo di forme residenziali ripetute era stato un motivo ricorrente nell’opera di Herzog & de Meuron, per esempio con la VitraHaus dove lo spazio espositivo aziendale nel Campus a Weil am Rhein è composto da una serie di volumi con il tetto a falde, impilati uno sopra l’altro con apparente casualità. A Leonard Street, i progettisti avrebbero fatto fare a questa idea un ulteriore passo avanti.
La forma dentellata dalla sagoma di una costruzione di Meccano – oggi familiare a milioni di newyorkesi che l’hanno soprannominata Jenga Tower – è, a parte tutto, più complessa di quanto non appaia. Dalla base a terra, che ospita un sontuoso atrio rivestito di nero e uno spazio commerciale (ancora da affittare), l’edificio si innalza fino al settimo piano in una sequenza di sporti irregolari, che si proiettano audacemente sui lati nord ed est della via. Poi, cosa che sorprende l’osservatore casuale, sale in uno schema di piani più o meno regolare fino al cinquantesimo, dove il gioco di rientri e sporgenze dà alla sequenza l’aspetto di essere una parte di una pila. Gli sbalzi riprendono nei livelli più alti, completando l’illusione.
Con le aree per gli impianti poste alla base e a mezza altezza, e il nucleo centrale di calcestruzzo, il 56 di Leonard Street è di fatto un normalissimo palazzo d’appartamenti di New York, brillantemente travestito da precario cumulo di contenitori modulari sovrapposti indiscriminatamente. Appena la si osserva, la sua apparente modularità risulta particolarmente significativa, perfino emozionante.
Proprio in questi giorni, mentre l’opera di Kapoor viene incastrata e saldata in loco sotto lo sporto più basso (“Un’operazione di incredibile difficoltà”, osserva Schmerbeck) il grattacielo di Manhattan è in procinto di perdere una specie di cugino spirituale distante mezzo mondo: la Nakagin Capsule Tower di Tokyo, un altro schema di “case nel cielo” dei primi anni Settanta, è destinato alla demolizione, e il suo sogno metabolista di incastri soccombe alla dura realtà dell’insufficienza funzionale e strutturale dell’edificio.
A cinque anni dal debutto del suo esperimento di edilizia residenziale verticale – nonostante l’occasionale perdita e la defezione di qualche piastrella della piscina del decimo piano – il 56 di Leonard Street appare una combinazione di relativo successo tra una stravagante fantasia urbana e una pragmatica machine à habiter, dotata della potenzialità di ripartire dal punto in cui è arrivata la Nakagin Tower e di realizzare almeno una parte delle sue promesse. Se così sarà, dipenderà dal fatto che questo notevole intervento di Herzog & de Meuron sul profilo della città è anche un edificio residenziale decisamente confortevole.
La vita dentro il grattacielo pendente, come sanno solo i suoi fortunati e benestanti inquilini, si svolge con metodico splendore, avvolta dalle morbide finiture dei muri di calcestruzzo a vista negli spazi comuni, tutti sobriamente arredati con pezzi scelti appositamente dagli architetti. La sala cinematografica è ovattata e intima, la zona dei giochi per i bambini è attrezzata con contenitori di legno integrati. Dalle ampie superfici degli appartamenti dei piani più alti, aggettanti sui piani più bassi, gli inquilini possono entrare in scena e sentirsi, magari con un certo brivido, i primi protagonisti di un’audace impresa: non solo proprietari di appartamenti sospesi nell’aria, ma fondatori di una nuova città, pionieri di una colonia tra le nuvole.
- Progetto:
- 56 Leonard Street
- Architetti:
- Herzog & de Meuron
- Responsabili di progetto:
- Jacques Herzog, Pierre de Meuron, Ascan Mergenthaler
- Gestione progetto:
- Philip Schmerbeck, Mehmet Noyan, Vladimir Pajkic
- Gruppo di progettazione:
- Caroline Alsup, Mark Chan, Simon Filler, Dara Huang, Sara Jacinto, Jin Tack Lim, Mark Loughnan, Jaroslav Mach, Donald Mak, Hugo Miguel Moura, Jeremy Purcell, Chantal Reichenbach, James Richards, Heeri Song, Charles Stone, Kai Strehlke, Zachary Martin Vourlas, Jason Whiteley, Sung Goo Yang, Daniela Zimmer, Christian Zöllner, Iwona Boguslawska, Martin Raub, Josh Helin, Joem Elias Sanez, Marija Brdarski
- Arte pubblica:
- Anish Kapoor
- Architetto esecutivo:
- Goldstein, Hill & West Architects
- Strutture:
- WSP Cantor Seinuk
- Ingegneria meccanica:
- Cosentini Associates
- Direzione lavori:
- Lend Lease
- Committente:
- Alexico Group
- Luogo:
- New York City, USA
- Superficie del sito:
- 1,162 m²
- Superficie costruita totale:
- 45,291 m²
- Fase di progetto:
- 2006-2012
- Fase di costruzione:
- 2007-2017