Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1051, novembre 2020.
“Benvenuti a False Bay”, diceva un cartello. Mentre l’auto si spostava da un versante all’altro della montagna, il paesaggio da tropicale divenne arido, da verdeggiante secco, come se fossi entrato in un altro paese con piante diverse, animali diversi, fiori diversi. Nuovi cartelli fiancheggiavano la strada: “Si prega di rallentare!”, “Attenti ai porcospini!”, “Pericolo caduta massi!”, “Attenzione buche!”. La radio trasmetteva una melodia vivace, un pezzo di Mahler, e quando l’auto rimbalzava sul manto stradale, che non veniva riasfaltato da un bel po’, anch’io rimbalzavo sul sedile in una specie di danza involontaria. Mentre la strada stretta scendeva costeggiando la penisola fino al livello del mare, la cittadina al di là della baia appariva e scompariva alla vista. Oltrepassai alcune vie i cui nomi – Capri Road, Warwick Street, Edimburgo Drive – richiamavano alla mente i ricchi coloni europei che quasi un secolo prima avevano trascorso le vacanze in quella che allora era nota come “la Riviera del Capo”. Quasi tutte le loro enormi ville rannicchiate contro la montagna erano state trasformate in ostelli per la gioventù o case di riposo.
Superai una stazione ferroviaria edoardiana chiusa con assi di legno e un tratto di spiaggia, una fila di cabine in stile vittoriano variopinte ma dall’aria stanca, la cui vernice sembrava non aver mai subito ritocchi dopo la costruzione. Poi, su un lontano pendio, comparve la casa: il grande cubo bianco, come nella foto sul giornale, che si levava dalle rocce su sottili pilastri bianchi, quasi a voler simboleggiare, sia pure sommessamente, la vittoria dell’architettura sulla natura. Da lontano la severa geometria della casa risaltava in un tale brusco contrasto con lo stile di quelle vicine – perlopiù ville coloniali riadattate alle esigenze del clima locale, case a schiera in stile edoardiano con finestre a persiana o ville mediterranee dai tetti di paglia – che la sua presenza pareva esprimere una critica. Sotto il sole al tramonto i muri splendevano, come illuminati dall’interno da una lampadina fluorescente.
Su un lontano pendio, comparve la casa: il grande cubo bianco, come nella foto sul giornale, che si levava dalle rocce su sottili pilastri bianchi, quasi a voler simboleggiare, sia pure sommessamente, la vittoria dell’architettura sulla natura
A differenza di Villa Savoye, che è raggiungibile in macchina, la Casa per lo Studio dell’Acqua si trovava su un pendio troppo ripido e bisognava arrivarci tramite una scalinata detta “la Scala di Giacobbe”. “Alla mia età”, mi aveva spiegato Hannah Kallenbach, “tutte quelle scale ti rovinano la vita. Io avrei fatto installare una funicolare elettrica”. In cima trovai un giardino in sfacelo e un laghetto per i pesci interrato. La mia prima impressione della casa in sé, vista dal vero, fu che era molto più piccola di quanto sembrasse in foto. L’intonaco esterno era scadente e corroso, solcato di crepe. Mi aggirai in cerca dell’ingresso, e alla fine lo trovai sul retro. Dovetti farmi largo attraverso lo strato di edera troppo cresciuta che ricopriva la porta, come per tenere lontani gli ospiti indesiderati. L’atrio era fiancheggiato da una rampa e una scala a chiocciola, mentre proprio davanti a me un corridoio superava un piccolo lavabo e terminava con una porta leggermente decentrata. Ipotizzando un’organizzazione orizzontale mi avviai lungo il corridoio e arrivai alla porta, che si apriva su quella che pareva una lavanderia in disuso. Poi tornai sui miei passi e salii la rampa che portava al primo piano. Le pareti bianche che la costeggiavano erano sgretolate e macchiate, ma decorate da chiazze di luci e ombre proiettate dalle striature delle finestre di vetro rinforzato e dalle linee verticali dei tubi del riscaldamento in alto. Un lungo corridoio azzurro si dipartiva dal pianerottolo del primo piano verso le camere da letto, la cucina e la zona giorno.
Qua e là si scorgevano tracce dei precedenti occupanti: qualcosa di nero sul pavimento della camera da letto (un topo, pensai, ma in realtà era un guanto di pelle), un barattolo di caffè solubile così vecchio che il contenuto si era coagulato in una massa unica. Una parete di vetro separava il soggiorno da un terrazzo di cui dall’esterno non avevo notato la presenza, perché era circondato dalla stessa serie di finestre a nastro che caratterizzava il resto della casa. In soggiorno c’era qualche mobile – una chaise longue, una poltrona – che non bastava però a rendere meno formale quello spazio troppo grande.
Dal terrazzo la rampa proseguiva il proprio viaggio e saliva lungo l’esterno della casa, per poi girare su se stessa e tornare indietro verso il tetto. L’ultima sezione, cinta su un lato da mura ad altezza d’uomo, terminava davanti a un altro muro a forma di S che circondava la parte del solarium rivolta verso il mare. A metà del muro a S si apriva un buco, il cui posizionamento di fronte alla fine della rampa faceva pensare che si trattasse, se non della ricompensa, perlomeno di una sorta di risarcimento per la dura salita.
A differenza delle finestre dei piani inferiori, quell’apertura in cima era alta e incorniciava una veduta del mare talmente pittoresca da sembrare quasi un prodotto della mia immaginazione. Una lastra di cemento sporgeva da sotto la finestra: un tavolo, pensai, ma con un elemento contraddittorio, visto che, paragonato ad altri tavoli, sembrava troppo piccolo; e comunque, se davvero lo era, allora dove si trovavano le sedie? In loro assenza pareva logico sedersi sopra la lastra come se fosse una panchina alta: una posizione che presumibilmente contrastava con l’intento dell’architetto, perché mi orientava con la schiena rivolta verso il panorama (in ogni caso difficile da godere, dato che il sole pomeridiano brillava così luminoso sull’acqua che mi facevano male gli occhi a guardarla). “Non lo so, non lo so”, dissi. Perché, da una parte, sembrava un peccato aver raggiunto quello che era chiaramente il culmine della casa solo per poi dargli le spalle. Ma, dall’altra, non era un gran sollievo rilassare le gambe per un po’? Dopotutto, da quando ero arrivato non avevo fatto altro che salire, perciò, davvero, sedersi non era affatto un brutto finale.
Immagine di apertura: dettaglio della facciata sud della Villa Savoye progettata da Le Corbusier e Pierre Jeanneret, realizzata tra il 1929 e il 1931 a Poissy-sur-Seine, Parigi. Foto Jonathan Eastland / Ajax
Katharine Kilalea è cresciuta in Sudafrica. La sua raccolta di poesie, One Eye’d Leigh, è stata selezionata per il Costa Poetry Award
e per l’International Dylan Thomas Prize. Il suo romanzo d’esordio, Va tutto bene, signor Field (Fazi Editore, 2020) è stato selezionato per il London Magazine and Collyer Bristow Debut Fiction Prize.
Il testo di Katharine Kilalea è tratto dal suo libro Va tutto bene, signor Field, pubblicato in Italia da Fazi Editore nella traduzione dall’inglese di Silvia Castoldi (prima edizione agosto 2020). ©2018 Katharine Kilalea ©2020 Fazi Editore srl