Venticinque anni fa, fresco reduce dalle sue battaglie per Euralille, Rem Koolhaas promulgò la teoria della bigness. Con il passaggio dalla scala locale a quella regionale, poi a quella internazionale e infine a quella globale, Koolhaas comprese che nessuno aveva più il controllo totale. I compromessi politici fatti con immobiliaristi, tecnici e altre figure che cambiavano in continuazione richiedevano un arbitrato incessante. Alla fine, gli architetti hanno dovuto seguire i flussi di potere e dei capitali e imparare a ‘navigare’ il sistema. La realizzazione di nuove infrastrutture – nel caso di Lille, il passaggio del treno ad alta velocità che collega Parigi a Londra attraverso il tunnel della Manica – offre spesso il pretesto per questo genere di schemi colossali. Come hanno dimostrato Bent Flyvbjerg e i suoi colleghi in Megaprojects and Risk: An Anatomy of Ambition (2003), grandi interventi pubblici come il tunnel sotto la Manica partono sistematicamente con stime di costo troppo basse, hanno sovraccarichi economici enormi e finiscono per essere utilizzati molto meno del previsto: lo spreco di denaro per progetti di questo tipo arriva anche al 50 per cento del budget, e il loro utilizzo, come nel caso del Channel Tunnel, è inferiore alla metà di quanto stimato.
Infrastrutture contemporanee, da mega a mini
In un lungo saggio scritto per l’inserto Grandi Opere di Domus 1048, Richard Ingersoll scrive di come potremmo ripensare la scala delle infrastrutture contemporanee, dagli interventi a basso impatto, al cambio di scala.
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- Richard Ingersoll
- 03 luglio 2020
In Italia e altrove, sotto gli alti costi si nascondono sprechi e corruzione. È quasi assiomatico che tanto più grande è il progetto, tanto maggiori sono le possibilità di corruzione: lo testimonia il Mose, il sistema di chiuse contro l’acqua alta nella laguna veneziana costato sei miliardi di euro, di cui uno sfumato in tangenti. Il progetto senza fine del Ponte di Messina, pensato per collegare la Sicilia con la terraferma, da cinque decenni succhia denaro dalle casse pubbliche senza aver prodotto nulla. Persino progetti stellari come il Viaduc de Millau di Sir Norman Foster e dell’ingegnere francese Michel Virlogeux sono caduti in una spirale di supponenza e spreco. I piloni del ponte strallato sono orgogliosamente più alti della Torre Eiffel, ma se la struttura fosse stata costruita 30 chilometri più a ovest la metà dell’altezza – e del costo – sarebbe stata sufficiente. Se ispirata dal processo di globalizzazione, l’infrastruttura tende a essere inflazionistica, confondendo le nozioni di necessità con rischi e sprechi elevati. Il pedaggio di otto euro per utilizzare il ponte Millau tiene lontani gli utenti locali, riducendo notevolmente la sua utilità e rendendolo uno straordinario monumento a se stesso.
Se l’attuale crisi sanitaria globale legata alla pandemia ci ha insegnato qualcosa è che viviamo in un momento di grande fragilità. E se le origini del coronavirus possono essere ricondotte a pipistrelli e pangolini, una causa ulteriore è certo la globalizzazione, poiché senza tale pervasivo movimento internazionale di merci e persone il virus avrebbe potuto essere circoscritto a Wuhan. Considerando che dietro la pandemia rimangono le più profonde minacce ambientali della crisi climatica, forse è giunto il momento di adottare un criterio diverso e meno globalista per le infrastrutture. Potremmo sperimentare interventi a basso impatto, orientati alla comunità, e cambiare scala: da mega a mini. Il contraccolpo economico che ha fatto seguito alla pandemia di Covid-19 richiede una risposta politica e tecnica creativa, sia dal punto di vista sociale sia ambientale. Oggi, in questa nuova condizione di stallo del commercio globale che ha visto un declino senza precedenti per l’industria petrolifera e la chiusura delle fabbriche automobilistiche, il mandato per un Green New Deal negli Stati Uniti e l’agenda dell’Unione europea per un Green Deal potrebbero avere ottime possibilità di essere presi sul serio. Per tutti i posti di lavoro andati perduti dovremmo chiedere nuovi posti di lavoro in attività a zero emissioni. Usciti dalla quarantena, potremmo riconsiderare le nostre priorità e deviare i finanziamenti pubblici e privati dalla globalizzazione e dalle stravaganze consumistiche verso il ripristino ecologico e la produzione di cibo ed energia locali.
Considerando che dietro la pandemia rimangono le più profonde minacce ambientali della crisi climatica, forse è giunto il momento di adottare un criterio diverso e meno globalista per le infrastrutture. Potremmo sperimentare interventi a basso impatto, orientati alla comunità, e cambiare scala: da mega a mini
Anziché avvallare l’installazione di piattaforme petrolifere offshore che minacciano di produrre danni irreparabili (vedi l’incidente della Deepwater Horizon del 2010), potremmo sponsorizzare il settore eolico offshore, come il progetto Middelgrunden nello stretto di Øresund, al largo di Copenaghen, metà del quale è stato finanziato da investimenti dei cittadini. Installate nel 2000, le 20 turbine eoliche collocate nelle acque a 3,5 chilometri dal porto producono il 4 per cento dell’energia della città. Il disastro accaduto a fine maggio a Norilsk, in Russia, con un’enorme fuoriuscita di greggio in seguito al crollo di un serbatoio di stoccaggio causato dallo scioglimento del permafrost, rappresenta un’altra terribile conseguenza dell’uso di combustibili fossili.
L’avvelenamento delle acque del circolo polare artico dovrebbe spegnere ogni residua simpatia per l’industria petrolifera. Nelle energie rinnovabili e in un impianto geotermico locale tale pericolo non sussiste. Quello da poco installato nel quartiere di Clichy-Batignolles a Parigi dovrebbe servire da modello per alternative a zero emissioni. Inaugurato nel 2016, il trasformatore di 50 metri quadrati è stato abilmente nascosto nel nuovo parco Martin Luther King e soddisfa le esigenze di riscaldamento e condizionamento dell’83 per cento delle 7.500 persone che vivono nel quartiere, nonché del nuovo Palais de Justice di Renzo Piano. La fratturazione idraulica (fracking), probabilmente il processo più nocivo per ricavare combustibili fossili, distrugge senza pietà territori e foreste. In una nuova agenda verde, potrebbe essere sostituito da infrastrutture che ripristinino l’ambiente. Dal 1997, la città di Basilea sponsorizza la Green Roof Initiative, che ha prodotto la maggior quantità di tetti verdi pro capite al mondo, migliorando le prestazioni termiche degli edifici e assorbendo metà del deflusso delle acque piovane. Il complesso espositivo Messe, in parte progettato da Herzog & de Meuron nel 2013, è il più grande tetto verde di Basilea e combina una piantagione di Sedum con oltre 8.000 metri quadrati di pannelli fotovoltaici, consentendo al complesso di vendere alla città l’energia in eccesso.
Ho spesso scritto di “infrastruttura come arte”, lamentando lo scarso ritorno in termini di bellezza o vita sociale a fronte di enormi investimenti in opere di pubblica utilità. A Curitiba, in Brasile, le biblioteche e i parchi creati accanto alle nuove stazioni per bus a transito rapido indicano un modo per raggiungere un risultato artistico. Negli anni Novanta, Barcellona ha utilizzato i terreni di risulta ottenuti dalla realizzazione di tunnel per la circonvallazione Ronda per costruire campi da gioco, biblioteche e parchi, mostrando come ricavare vantaggi sia sul piano sociale sia artistico. A Medellín, in Colombia, il nuovo sistema di trasporto tramite funivia verso i quartieri poveri prevede spazi pubblici per lo svago e le attività culturali.
L’idea che l’infrastruttura possa generare ricadute benefiche dovrebbe essere radicata in ogni obiettivo di progetto. L’infrastruttura spesso dice di basarsi su una necessità ineludibile: acque, liquami e persone devono spostarsi. Ma nel risolvere il problema logistico, possiamo anche fornire spazi per il tempo libero, per il gioco, decorazioni, natura e strutture inclusive. Una delle fermate del nuovo sistema di tram di Bordeaux, che ha notevolmente ridotto l’utilizzo dell’auto in centro città, offre un bell’esempio di attrazione democratica. La piscina riflettente del Miroir d’Eau progettata dal compianto Michel Corajoud e dall’ingegnere idraulico Jean-Max Llorca, con la sua superficie di 3.450 metri quadrati coperta da un sottile strato di acqua che riflette i monumenti storici, si trova sulla riva del fiume di fronte alla splendida Place de la Bourse progettata da Ange-Jacques Gabriel. Nell’arco di 15 minuti, la spianata di granito viene coperta da un velo di bruma che si trasforma in getti gorgoglianti, creando uno degli spazi ludici più rinfrescanti dei nostri tempi.
Ripensare la scala delle infrastrutture da globale a locale porterebbe a progetti in cui è più facile inglobare l’infrastruttura come arte. I tre mesi di chiusura che in molti abbiamo subito hanno portato nuovo valore al localismo, rafforzando la dimensione umana. Niente auto, niente treni, niente aerei, solo pochi camion che portavano merci ai supermercati. Forse alcuni tipi di infrastruttura diventeranno obsoleti. La possibilità di trattarli come reperti archeologici si è già manifestata con il Viaduc des Arts di Parigi, la ferrovia sopraelevata che collegava la Bastiglia alla Gare de Lyon. Ora è un parco alberato. La High Line di New York ha fatto lo stesso. La riforestazione dei cantieri ferroviari a Berlino presso il Natur-Park Südgelände e la fitta trama vegetale del Jardin Botanique di Bordeaux (un cantiere di smantellamento abbandonato che ora funge da parco, lungo un chilometro) mostrano come le infrastrutture dismesse possano essere riconvertite per raggiungere lo status di arte.
Mentre le multinazionali hanno bisogno di un’infrastruttura ad alta velocità per spostare merci e persone in tutto il mondo, nutriamo dubbi su ciò che viene da lontano. Durante l’isolamento, la domanda di prodotti locali, soprattutto alimentari, è aumentata. Gli orti sui tetti come il DakAkker a Rotterdam, i giardini educativi come gli Orti Dipinti a Firenze e la rigenerazione di lotti abbandonati come gli orti urbani a Detroit mostrano come gli spazi residui possano essere utilizzati per rigenerare la città e produrre cibo. L’infrastruttura verde dell’agricoltura urbana sta iniziando a imporsi in molte città.
L’idea che l’infrastruttura possa generare ricadute benefiche dovrebbe essere radicata in ogni obiettivo di progetto. L’infrastruttura spesso dice di basarsi su una necessità ineludibile: acque, liquami e persone devono spostarsi. Ma nel risolvere il problema logistico, possiamo anche fornire spazi per il tempo libero, per il gioco, decorazioni, natura e strutture inclusive
All’indomani della pandemia, spostarsi a piedi o in bicicletta sembra un’opzione migliore rispetto ai mezzi pubblici. I veicoli privati, sebbene più sicuri dal punto di vista del contagio, continuano a creare inquinamento, che a quanto pare è stato un fattore importante nella diffusione del virus. Camminare può essere spesso impegnativo in un clima caldo o di notte, quindi avere in città più alberi e luci di sicurezza a bassa intensità potrebbe essere un vantaggio. Nella nostra lista delle priorità, le strade a scorrimento veloce potrebbero essere sostituite da nuove piste ciclabili. Alla stazione di Friburgo in Brisgovia, in Germania, c’è una meravigliosa torre per il parcheggio di oltre 2.000 biciclette, con un bar all’ultimo piano e un noleggio al pianterreno. Sul tetto, pannelli fotovoltaici sporgono come fiori. La nuova Karen Blixens Plads dell’Università di Copenaghen – una città dove il il 70 per cento della popolazione sceglie le due ruote – nasconde anch’essa un parcheggio per 2.000 biciclette sotto un sensuale rigonfiamento del terreno, cui si accede attraverso graziose aperture circolari.
La rete energetica un giorno potrebbe cedere il passo ai sistemi locali di distribuzione. Sta già accadendo ad Auroville, in India, e a Findhorn, in Scozia, ma si tratta di comunità piuttosto piccole. Ad Almere, una nuova città vicino ad Amsterdam, è stato costruito un quartiere a energia solare con un’isola ovale di oltre 500 pannelli fotovoltaici che forniscono energia e calore a 2.700 appartamenti. Pur non essendo ancora completamente autonoma, rappresenta un inizio. Rendere lo smaltimento dei rifiuti solidi una questione locale sarà una delle grandi sfide del futuro. In Svezia, nei quartieri del porto occidentale di Malmö e in quello di Hammarby Sjöstad a Stoccolma, sono stati installati trasportatori pneumatici per inviare rifiuti differenziati ai punti locali di compostaggio e incenerimento. I cittadini devono riempire sacchi di colore diverso in base al materiale, i sensori nei tubi riconoscono i colori e inviano i sacchetti al collettore appropriato.
Come dovremmo trattare le nostre deiezioni? È sorprendente come questa potenziale fonte di arricchimento del suolo vada quasi sempre sprecata, con costi elevati. A Dharavi, una baraccopoli sovrappopolata e priva di fognature a Mumbai (sfondo del film The Millionaire, uscito nel 2008), è iniziata una campagna per installare i biodigestori, che sono inodori e producono biogas e compost. La tecnologia è pronta e non aspetta che di essere installata, ma di tutte le nostre infrastrutture, il sistema di igienizzazione è forse il più difficile da ripensare.
Mentre non mi aspetto che la globalizzazione ceda il passo senza combattere, né che tutti desiderino limitarsi a vivere situazioni locali, ci sono ovvi vantaggi nel rallentare il processo di accumulo di anidride carbonica. Lo dimostrano le immagini satellitari delle grandi città da marzo a maggio. Ciò nonostante, potremmo ancora aver bisogno di alcuni megaprogetti. Alcuni sono assolutamente necessari, principalmente a causa di errori del passato che comportano ancora alti rischi. In particolare, il progetto infrastrutturale più importante in Europa è il nuovo capannone che racchiude il reattore 4 di Chernobyl, in Ucraina. Senza questa immensa cupola, nota come New Safe Confinement (una volta in acciaio con la larghezza maggiore nella storia, 257 metri), la maggior parte dell’Europa sarebbe inquinata dalla diffusione della radioattività. Per compensare il reattore perduto, ai margini dell’area è stata costruita una fattoria solare fotovoltaica. Questo progetto di collaborazione, completato nel 2018, sponsorizzato da 20 Paesi e progettato da tecnici francesi e italiani, dimostra quanto siamo bravi in caso di emergenza. Questo è purtroppo l’atteggiamento che dobbiamo adottare per i tempi difficili che ci aspettano con l’aumento del riscaldamento globale.
Immagine di apertura: la piazza Karen Blixens Plads a Copenaghen, progetto di Cobe con EKJ Consulting Engineers, 2019. Con i suoi 20.000 m2 è la più grande in città e può far parcheggiare 2.000 biciclette. Foto Rasmus Hjortshøj