Che si tratti di un manufatto, di uno spazio, di un luogo privilegiato (essendo sede, da sempre, delle più diverse relazioni sociali) il balcone è il protagonista in questo triste tempo di quarantene, reclusioni forzate e hashtag inquietanti. E allora, davanti all’impossibilità di fuga ci si rifugia in quello spazio privilegiato proprio in quanto liminare, sul limite cioè delle mura domestiche, l’unico che ci consente, ora, un rapporto con l’esterno, con l’altro, anche se a distanza, pur rimanendo in casa propria.
Ed è da qui, fermi, immobili, confinati, che partecipiamo alla “più grande sfida che l’Europa abbia affrontato dalla Seconda Guerra Mondiale”. E chi ce l’ha, un balcone, ne gode come probabilmente non ne aveva mai goduto, mentre chi non lo possiede lo desidera come mai aveva fatto prima.
balcóne s. m. [propr. accr. di balco]: Complesso architettonico costituito da una struttura generalmente sporgente a sbalzo dalla facciata dell’edificio, in modo da formare un ripiano accessibile attraverso una o più porte-finestre e circondato da un parapetto. (dalla Treccani)
Possedere un balcone, o un terrazzo, è, oggi ancor più di ieri, un privilegio. E non solo perché ci consente di prendere una boccata d’aria, di osservare la città (il mondo!), ma perché “osservare” è diventato rapidamente, come per magia, sinonimo di “partecipare”.
Una partecipazione limitata certo, ma pur sempre la più attiva che è oggi, ai più, socialmente concessa.
Il balcone ha riacquisito in pochi giorni la sua funzione più moderna e democratica, quella partecipativa, appunto, ed è tornato a essere utilizzato come “telefono senza fili”, ora che, tra gli eccessi della smart-communication, cominciamo a sentire il bisogno di ri-guardarci in faccia, dal vero. In fondo, come ha notato Makkox, “i balconi sono stati i primi social”, e l’edera o il divisorio, che utilizzavamo per difenderci dagli sguardi indiscreti dei vicini, il primo “banner”.
Dalla Persia alla Sicilia
Nato in Persia e in Egitto come uno spazio che aveva una specifica funzione cerimoniale, simile a quella del pulpito, che potremmo definire gerarchica (far prevalere la presenza di qualcuno sulle masse che lo osservano), nel corso del tempo il balcone, o la sua sorella maggiore, la terrazza, assunse nuove funzioni e nuovi usi.
Spazi analoghi, i loggiati, si erano infatti diffusi nella Grecia e nella Roma Antica (maenianum), con finalità prevalentemente ricreative: garantire una vista migliore ai cittadini che assistevano agli spettacoli pubblici, per esempio nei pressi del Foro.
Dal Medioevo in avanti, invece, in assenza di impianti fognari, il balcone aveva assunto anche un’altra funzione essenziale, quella di gabinetto, come ci ricordano anche Benigni e Troisi nel capolavoro “Non ci resta che piangere”.
Durante il Rinascimento i balconi divennero, poi, vere e proprie opere arte da mostrare in società, “status symbol” la cui finalità era estetica prima ancora che funzionale.
Basti pensare ai palazzi rinascimentali, a Vasari e Raffaello, e allo strampalato balcone rovesciato di Firenze, le cui mensole di sostegno, le volute, le balaustre e le colonnine del parapetto, sono tutte montate al contrario, con l’unico fine di beffare l’ordinanza con cui, nel 1530, Alessandro de’ Medici tentava di ordinare e rendere più armoniose e funzionali le strette strade fiorentine.
O, più tardi, all’architettura veneta del ‘500, al Palladio, a Scamozzi…
In epoca barocca, il balcone assunse, infine, un ruolo centrale nella definizione della composizione delle facciate nobili: esplose l’uso di balaustre in ferro particolarmente complesse e decorate (che meraviglia i balconi siciliani!).
Mostrare e confinare
Il mostrarsi, sempre da una posizione privilegiata, è rimasto una modalità d’uso costante e, ahi noi, è degenerata anche nei periodi più bui dell’epoca moderna e contemporanea: quanti dittatori e uomini di potere abbiamo visto, e ancora vedremo, approfittarsi di una posizione che concedeva loro il privilegio di essere sempre guardati dal basso verso l’alto?
E noi “poracci” sotto, naso all’insù: guardare, ammirare, e non toccare.
Una condizione analoga a quella che lo spettatore sente nel guardare le Majas al balcone, i celebri dipinti di Goya di primo ‘800, rappresentazione terribile della bellezza prezzolata e del male che se ne serve. Stare al balcone era tipico delle prostitute: le “majas” sono in effetti probabilmente “esposte” sul balcone dai loschi individui che incombono come ombre indefinite alle loro spalle, o dall’inquietante e compiaciuta “Celestina”, la pappona.
Tutt’altro esempio, ben impresso nella memoria collettiva, di donna al balcone, è quello della famosa storia shakespeariana. Interpretato come simbolo stesso dell’amore romantico, inarrestabile e fiero, contro tutto e tutti, la storia di Giulietta rivela in realtà un’altra funzione del balcone.
Qui Giulietta non si mostra: controllata a vista in casa dai genitori e dalla balia, per incontrare il suo Romeo è costretta a nascondersi, a disobbedire, a rifugiarsi sul balcone, unico spazio di partecipazione e di dissenso possibile per lei che, come noi, si ritrova confinata.
Questa del confinamento in casa, per altro, è stata per secoli la condizione delle donne, che non a caso appaiono sui balconi di tante storie. Tanto che la scrittrice Christine de Pizan, femminista ante-litteram, nel Livre de la Cité des Dames (1405), immagina un luogo in cui le donne possano essere libere e “lontane dagli uomini, potenzialmente invadenti e guardoni” e in cui le case – rigorosamente senza cucine – sono collegate tra loro da una serie di “passerelle”, assai simili ai moderni ballatoi.
Si fanno guardare eccome, invece, anche se al contempo osservano all’alto ciò che accade in strada, gli aristocratici personaggi parigini ritratti dietro una ringhiera verde da Manet nel celebre Il balcone del 1869. Ed è quella balaustra a fornirci le indispensabili indicazioni sullo status sociale dei quattro effigiati. I balconi si erano diffusi a macchia d'olio in seguito al radicale intervento urbanistico del Barone Haussmann (prefetto della Senna dal 1853 al 1870) il quale, in nome di nuove norme igieniche, sovrappose all'antica città medievale una nuova maglia funzionale di scenografici allineamenti stradali, i boulevard, definiti da palazzi sontuosi, dotati di facciate monumentali e di balconi, così da rendere Parigi il salotto buono della città borghese ottocentesca.
Come dalla balconata di un teatro le quattro figure, tutte rivolte in direzioni diverse, perse nei loro pensieri e apparentemente distanti da ciò che accade intorno a loro, non guardano solo lo spettacolo, bensì fanno spudoratamente sfoggio di sé.
Il balcone nel Novecento
Esiste un verbo spagnolo, “balconear”, che La Real Academia Española definisce così: “osservare gli avvenimenti senza parteciparvi”. Un significato che rende evidente quella che è stata a lungo la funzione principale di questo manufatto architettonico.
Atteggiamento criticato recentemente anche da Papa Francesco, inaspettato rivoluzionario dei tempi che corrono, quando ha invitato le generazioni più giovani a “non balconear”, a “tuffarsi nella vita come ha fatto Gesù”.
E non è casuale se proprio in epoca rivoluzionaria, era il 1911, Boccioni dipingerà un quadro dal titolo emblematico: La strada entra dalla finestra. Il dipinto mostra una donna di spalle, appoggiata alla ringhiera di un balcone; ma nella rappresentazione, interno ed esterno si fondono in un unicum in cui colori e geometrie sprigionano un’enorme carica emotiva, una forza capace di piegare gli edifici, di rompere il divario tra vita osservata e vita vissuta. Un esplicito invito a una partecipazione che, dato il nuovo contesto storico sociale scaturito dalla rivoluzione industriale, non può più essere evitata.
Pochi anni dopo, nel 1924, Moholy-Nagy propose ad alcuni suoi colleghi professori (Kandinskij, Klee, Schlemmer, Muche e Feininger) di rielaborare, in occasione del compleanno del fondatore del Bauhaus, Walter Gropius, una fotografia pubblicata su un giornale tedesco.
Al di là degli aspetti plastici e compositivi, l’immagine ritraeva un ricevitore radio con un megafono posto sul davanzale di un balcone mentre trasmetteva i risultati delle elezioni a una folla attenta e preoccupata raccolta in piazza.
La fotografia aveva qualcosa di inquietante: da un lato, la situazione politica, economica e sociale della Germania non era di buon auspicio; dall'altro, la folla, ammassata in attesa di sentir parlare una macchina, faceva presagire un futuro alienante e disumanizzante, in cui le macchine avrebbero controllato, dall’alto, l’umanità. Incredibile come in modo simile oggi sui quotidiani di tutto il mondo si discute di un possibile controllo della Società attraverso telefonini e satelliti per fermare l’epidemia.
Fu proprio a partire da quegli anni – e dopo lo sfarzo delle evoluzioni floreali Art Nouveau di inizio secolo –, grazie alla diffusione dell’uso del cemento armato, che il balcone tornò a forme meno appariscenti, più composte e rigorose, e a una sua ancor più ampia diffusione. E proprio le famosissime foto di professori e studenti sui balconi della nuova sede del Bauhaus a Dessau lo dimostrano.
Una diffusione che, bisogna ammetterlo, non fu sempre legale: quanti furono i balconi abusivi costruiti in Italia nel corso del Novecento?
Il ballatoio, un nuovo modello di socialità
E fu proprio durante il XX secolo che si diffuse anche in ambito domestico il “fratellastro” del balcone: il ballatoio. Nato come elemento funzionale di collegamento – un passaggio accostato a una parete di un edificio, in genere sul lato esterno – nel Novecento ha definito una nuova tipologia di edilizia residenziale popolare, le “case a ballatoio”, anche dette “di ringhiera”, in cui è stato utilizzato come spazio comune per accedere alle singole unità abitative, ed è divenuto il luogo per antonomasia delle relazioni sociali inter-condominiali. Utilizzato per stendere i panni, uscire a fumare, chiedere informazioni e spettegolare, organizzare eventi collettivi in cortile (e chi più ne ha più ne metta), ha definito più che una tipologia architettonica, un modello sociale di vita comunitaria: la vita da ballatoio, appunto.
Modello che fu ripreso ed esaltato negli sfrontati anni ‘60 in cui nacque il Team X, il primo movimento a rompere con il modello funzionalista del movimento moderno, tra i cui fondatori c’era il nostro Giancarlo De Carlo, autore, tra le varie straordinarie cose, dei collegi universitari di Urbino: vera e propria ode al balcone, e al ballatoio, come “motore sociale”.
Il balcone del nuovo millennio
Con l’inizio del XXI secolo, però, il balcone (e con lui il terrazzo) è tornato a riflettere il cambiamento della società, sfrontatamente capitalista e sempre più individualista. Interpretato non più come luogo atto alle relazioni sociali tra condomini, ma come un interno, privato, all’esterno, come uno spazio protetto da rumori e da sguardi indiscreti: è diventato sinonimo di privilegio e di lusso. Nell’era globale il balcone, spesso travestito da spazio bio-climatico, è l’attore protagonista delle campagne pubblicitarie delle tante promozioni immobiliari che hanno invaso le città del mondo, Milano compresa.
E ora, che ci ritroviamo in questa triste condizione di “confinati in casa”, ce ne rendiamo conto, perché di quelle relazioni sociali sentiamo e abbiamo bisogno.
Così siamo tornati ad affacciarci, a guardare le nostre città deserte dall’alto, nel disperato tentativo di avere un contatto umano, di partecipare, non più di “balconear”.
Per immaginare un futuro in cui non si arrivi a desiderare di gettarsi dal balcone come Fantozzi, non per prendere l’autobus, ma per sfuggire alle mura domestiche, e in cui situazioni come questa, o peggiori, non si ripetano, c’è davvero bisogno di tutti, e di buone idee sulle quali costruire “la vita che verrà”.
Speriamo si possano affacciare da un balcone.
Ci sentiamo in dovere quindi di rilanciare qui, come si usa fare oggi, un hashtag creato dal gruppo di videomaker napoletani, i The Jackal, in un altro brutto periodo della nostra storia recente: #restiamoaibalconi.
Carlotta Origoni, grafica, si occupa prevalentemente di comunicazione visiva, edizione e tecniche di stampa.
Matteo Origoni, architetto, è professore di Museografia all'Accademia di Brera e si dedica all'exhibit design, alla progettazione di interni e del prodotto.
Lavorano, insieme a Franco Origoni e Anna Steiner, nello studio di famiglia: Origoni Steiner architetti associati.