I crolli che negli ultimi anni hanno funestato periodicamente la rete autostradale italiana, e le conseguenti polemiche sulla sua obsolescenza, sulla gestione maldestra e sulla manutenzione insufficiente, confermano con violenta evidenza che è ormai lontana tutta un’epoca di eroismo ed edonismo infrastrutturale, che conosce il suo apogeo tra gli anni ’50 e ’70. La storia della costruzione delle autostrade italiane è punteggiata dalla realizzazione di manufatti (ponti e trafori, sbancamenti e trincee) che furono effettivamente all’avanguardia e che vennero spesso salutati come prodigi. Ma l’autostrada, che era anche quella “del Sole” (la A1) o “dei Fiori” (la A10), era pure l’infrastruttura per eccellenza di un rito, una processione collettiva alla scoperta dell’esotico: una regione lontana, il Sole del Mezzogiorno, i Fiori della Riviera, o anche solo le stazioni di servizio, inedite icone architettoniche imbottite di prodotti di consumo altrettanto inusuali. Certo, pur nell’ebrezza generalizzata, erano già in molti ad additare l’autostrada come scempio, opera devastatrice dei “vandali” denunciati dal giornalista archeologo Antonio Cederna. La presenza dell’infrastruttura fu fin da subito mal sopportata secondo le dinamiche del “complesso della cicatrice”, descritto dallo storico del paesaggio francese Alain Roger. Nell’Italia degli anni ’10 del XXI secolo, però, l’infrastruttura distruttrice sembra auto-distruggersi; la fu cicatrice, ormai integrata in un paesaggio stratificato e profondamente antropizzato in ogni sua parte, ne condivide e ne estremizza un carattere fondamentale: la fragilità. È per questa ragione che i crolli in sequenza del viadotto Himera sulla Palermo-Catania (2015), del Ponte Morandi di Genova (2018) e ora di un tratto della carreggiata della Torino-Savona (lo scorso 24 novembre), tra gli altri, devono stimolare un ragionamento complessivo e collettivo sul territorio nazionale nel suo insieme.
Marco Navarra, Nicola Russi, Andrea Zampieri, Federico Zanfi
Perché l’Italia crolla: ponti, viadotti e infrastrutture fragili
I crolli autostradali sono il sintomo di una fragilità nazionale che merita di essere affrontata in un’ottica più ampia.
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- Alessandro Benetti
- 27 novembre 2019
Ma l’autostrada era pure l’infrastruttura per eccellenza di un rito, una processione collettiva alla scoperta dell’esotico
A partire da questo episodio della cronaca recente, abbiamo sollecitato un gruppo di esperti (ingegneri, architetti, urbanisti) a riflettere sulle ragioni di tale fragilità, e sulle possibili strategie, culturali e progettuali, per farvi fronte. Andrea Zampieri, ingegnere strutturista, specializzato nel progetto e nel monitoraggio delle infrastrutture, sottolinea come in Italia, oggi, si verifichi la sfortunata compresenza di “un territorio ad elevato grado di pericolosità (sismica e idrogeologica, ad esempio) e di infrastrutture ad alto livello di vulnerabilità. Quest’ultima è determinata dall’obsolescenza, da decenni d’ispezione e manutenzioni carenti, a volte dalla cattiva abitudine di costruire ‘al risparmio’ nell’Italia del secondo Dopoguerra, e comunque a partire da consapevolezze tecniche che non sono quelle di cui disponiamo oggi”. Marco Navarra, Professore associato presso l’SDS Architettura Siracusa – Università di Catania, e autore di Terre fragili. Architettura e catastrofe (LetteraVentidue, 2018), sposta l’attenzione dalla materialità dei manufatti ad una considerazione più generale sulla cultura del progetto: “Penso che sia completamente errato il modo in cui si parla nei media di fragilità territoriali. Il problema non sta nelle infrastrutture e nella loro mancata manutenzione. È necessario modificare radicalmente il nostro punto di vista. Non stanno crollando le infrastrutture ma la cultura che le ha costruite. Se si continuerà a parlare e progettare le infrastrutture allo stesso modo, i crolli in futuro non potranno che aumentare”.
Il problema non sta nelle infrastrutture e nella loro mancata manutenzione. Non stanno crollando le infrastrutture ma la cultura che le ha costruite
Anche Federico Zanfi propone un deciso cambio di prospettiva, in questo caso in relazione ad un fenomeno per molti versi tipicamente italiano, l’abusivismo, che partecipa attivamente alla fragilizzazione del territorio nazionale, in particolare in tante aree del sud. Professore associato presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano e promotore della rete TAMC.lab, con Francesco Curci ed Enrico Formato, nell’ultimo decennio Zanfi ha contribuito a definire un filone di ricerca originale dedicato all’abusivismo edilizio nel Mezzogiorno, a cavallo tra analisi critica delle cause e delle modalità della costruzione abusiva del territorio, e proposte progettuali per la gestione e la valorizzazione di questo patrimonio atipico. “All’abusivismo edilizio” spiega Zanfi “si collegano almeno due fattori di fragilità. Da un lato, la fragilità intrinseca dei manufatti, che sono stati spesso realizzati in economia, affidandosi a una manodopera a basso costo, se non addirittura all’autocostruzione. Dall’altro, la loro localizzazione in aree esposte a rischio ambientale (fiumare, pendii instabili, coste in erosione), la cui criticità si è accentuata nel tempo sia per l’edificazione non autorizzata, sia per l’insufficiente manutenzione del territorio. In questi contesti, la presenza di costruzioni abusive trasforma esondazioni e smottamenti in quelle tragedie che hanno segnato la cronaca degli ultimi due decenni, da Sarno a Casteldaccia”. Alla luce dei cambiamenti climatici, d’altra parte, anche la realtà della fragilizzazione territoriale assume una scala globale, e non solo italiana. Ne parla Nicola Russi, Professore associato presso il Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino, e co-fondatore di Laboratorio Permanente (con Angelica Sylos Labini), il cui progetto Agenti Climatici (elaborato con OMA) ha recentemente vinto il concorso per la rigenerazione dello Scalo Farini di Milano. Russi riflette su come la sempre più rilevante variabile climatica possa determinare una rilettura inedita e progettuale dei legami tra città storica e contemporanea: “La città storica, ad esempio in Italia, ha saputo definire un rapporto estremamente coerente con la geografia e le condizioni climatiche del suo sito, costruendosi di fatto ‘attorno’ ad esse. Ciò le ha permesso, tra le altre cose, di garantire prestazioni climatiche di alto livello. È anche per questo che essa rimane una fonte imprescindibile d’ispirazione per la costruzione della città contemporanea. D’altra parte, proprio a causa della sua completa simbiosi con il territorio che la ospita, la città storica si sta fragilizzando di pari passo con esso. La sua condizione site-specific è messa sempre più in discussione perché è lo stesso sito ad evolvere in direzioni un tempo imprevedibili. Da questo scollamento deriva certo una condizione di crisi, ma anche un’enorme potenzialità: strategie e modelli che prima trovavano una corrispondenza pressoché biunivoca con un singolo luogo, si rendono ora disponibili a ‘circolare’, a ricombinarsi con contesti diversi, a ‘solidificare’ territori le cui tradizioni costruttive e insediative si rivelano ormai insufficienti per affrontare le tematiche della loro contemporaneità”.
Immagine di anteprima: una frana ha causato il crollo di una porzione di viadotto lungo l'autostrada A6 Torino-Savona, tra l'innesto con la A10 e Altare in direzione Torino. Per le forti piogge ha ceduto un tratto di montagna, che si è portata via una trentina di metri del viadotto. Courtesy Rete Meteo Amatori