“Gli oggetti urbani di Benoît Jallon et Umberto Napolitano sono monoliti invulnerabili, che aderiscono al credo rossiano (…) secondo il quale architettura e città sono inseparabili”: con questa frase Alexandre Labasse, direttore del Pavillon de l’Arsenal di Parigi, sintetizza due delle linee portanti della ricerca di LAN – Local Architecture Network. Dalla sua fondazione, nel 2002, lo studio parigino investiga al tempo stesso “la vita della forma al di là del funzionalismo”, e la relazione che questa forma, il monolite, intrattiene con la città.
Così, negli ultimi quindici anni i progetti di LAN – dalla residenza per studenti a Parigi (2007-2011) ai 79 alloggi a Bègles (2009-2015), dagli archivi EDF a Bure (2008-2011) alla palestra e piazza pubblica di Chelles (2008-2012) – hanno proposto una modalità alternativa di costruzione del paesaggio urbano (e non solo) francese, rifiutando la logica dell’addizione di oggetti e linguaggi autoreferenziali e riaffermando il legame imprescindibile tra l’architettura contemporanea e il continuum storico della città.
La grande mostra Paris-Haussmann. Modèle de ville, curata con Franck Boutté nel 2017 al Pavillon de l’Arsenal, ma anche l’impegno in ambito accademico (Napolitano insegna alla AA School of Architecture di Londra) testimoniano della volontà di LAN di sostanziare la propria attività professionale con una ragionata riflessione teorica.
Nello studio appena inaugurato nell’XI arrondissement di Parigi, Umberto Napolitano racconta a Domusweb un momento cruciale nella crescita di LAN, che si confronta in questo momento con nuove scale di progetto (per esempio a Nantes, con il coordinamento del quartiere Polaris), nuove tipologie (come a Strasburgo, dove è in costruzione il Teatro Le Maillon) e nuovi livelli di attenzione mediatica (con l’incarico d’eccezione per la ristrutturazione del Grand Palais).
Per cominciare, una domanda di assoluta attualità. Lo scorso 25 aprile sei stato uno dei quattro esperti invitati al Centre Pompidou a riflettere sul futuro di Notre Dame: qual è il tuo punto di vista sulla questione?
Sono piuttosto preoccupato della piega che sta prendendo il dibattito. La reazione potentissima che l’incendio ha suscitato è certamente legata al enorme valore simbolico di Nôtre Dame (come simbolo religioso, simbolo urbano, ecc…) ma anche allo stato di fortissima “emotività urbana” generata a Parigi da una sequenza di eventi tragici, distruttivi, a partire dagli attentati del 2015.
Inoltre, la necessità d’intervenire, di riprogettare uno dei più importanti monumenti del paese riapre una serie di questioni sull’identità nazionale: che immagine si vuole dare della Francia attraverso l’azione sul suo patrimoine, il suo patrimonio costruito?
A mio parere, è necessario uscire dalla logica dell’urgenza e affrontare la questione a freddo. In questo momento, il dibattito deve interrogarsi sull’effettiva necessità della ricostruzione, più che sulle forme che essa potrà assumere. È davvero necessario ricostruire la guglia? Realmente la sua ricostruzione aiuta a trasmetterne la memoria più che la sua assenza?
Nel 2014 avete vinto il concorso per la ristrutturazione di un altro grande monumento parigino, il Grand Palais. Come affrontate questo progetto, eccezionale in termini di scala, valore del manufatto su cui intervenite, risonanza mediatica?
Da anni riflettiamo sull’idea di una forma che possa andare al di là della necessità per la quale è costruita, una forma che non sia uno stato di un momento, ma un movimento. Il Grand Palais è una testimonianza costruita di questa autonomia, resilienza della forma: nel tempo, ha accolto le funzioni più svariate (il salone dell’automobile, un ospedale di guerra, corse di cavalli, uffici) modificandosi spazialmente ma senza variare sostanzialmente nella sua intelligenza di base.
Alla giuria abbiamo proposto innanzitutto un’interpretazione della forma del Grand Palais. Che, di fatto, è concepito come una “città” (perché i suoi tre architetti si sono accordati innanzitutto sul sistema distributivo, le “strade”) ed è già dotato di quella ricchezza di spazi accidentali (più di 40, diversi tra di loro, indipendenti ma connessi e potenzialmente unibili) che molti altri musei contemporanei cercando di ricreare, dal Lousiana Museum of Modern Art di Copenhagen, al Musée du Quai Branly di Parigi, al Louvre Abu Dhabi. La lettura di questi spazi e la loro ottimizzazione per un uso contemporaneo è, di fatto, il nostro progetto per il Grand Palais.
Anche il vostro edificio per abitazioni nel quartiere delle Batignolles, a Parigi (2014), partecipa a questa riflessione sull’autonomia della forma, ma all’interno della città ordinaria.
Si, e in particolare in relazione alla città haussmanniana, i cui immeubles de rapport sono edifici sostanzialmente generici, costruiti per fini speculativi, senza conoscerne l’utilizzatore finale. La facciata portante è pensata prima della pianta, e risponde sempre a poche regole, imposte da Haussmann stesso all’atto di vendita di ogni singolo lotto. Nel tempo, questo tipo d’immobile ha mostrato una straordinaria intelligenza e capacità di adattamento.
Abbiamo concepito e descritto l’edificio delle Batignolles come un immeuble de rapport, per inserirlo nella tradizione haussmanniana e contrapporci così al “collage urbano”, alla moltiplicazione arbitraria dei linguaggi che ha caratterizzato la costruzione della città francese negli anni ’90 e 2000. Era l’epoca dell’“urbanistica delle prescrizioni” dove ogni nuovo edificio si preoccupava innanzitutto di rispettare le poche regole imposte dagli urbanisti, più che di prendere posizione all’interno del continuum storico della città.
Abbiamo estruso perfettamente il lotto; abbiamo realizzato una facciata portante che libera le piante interne da molti accidenti e che riprende, ribaltandole, le proporzioni di pieno e vuoto dell’immobile haussmaniano; abbiamo insistito sul possibile cambio d’uso futuro dell’edificio, ad esempio da abitazioni a uffici; abbiamo utilizzato un linguaggio generico, composto di pochi elementi ripetuti (un unico modulo, un’unica finestra, ecc..).
Questo processo di “riduzione” ha anche permesso all’edificio di definire una narrativa propria, un linguaggio che in altre realtà, come la Germania e la Svizzera, era già molto diffuso, ma che in Francia era un’assoluta novità.
Le vostre ricerche sulla città haussmanniana sono poi proseguite e si sono concretizzate, tra le altre cose, nella mostra Paris Haussmann. Modèle de ville.
Si, è stato proprio vedendo il nostro edificio delle Batignolles che il Pavillon de l’Arsenal ci ha proposto di continuare le nostre riflessioni su questo tema e di trasformarle in un’esposizione. Per la prima volta, abbiamo studiato la Parigi haussmanniana utilizzando il file GIS, un rilievo del tessuto urbano in 3D, completato da una quantità enorme di informazioni di vario genere: il periodo di costruzione di ogni immobile, la quantità di persone che vi abitano, i materiali di cui è costruito, la sua distanza dal trasporto pubblico, ecc. Questo sguardo finalmente “scientifico” ci ha sottratto all’aleatorietà che caratterizza troppo spesso gli studi urbani, e ci ha anche permesso di sfatare alcuni falsi miti su Haussmann. Ad esempio abbiamo scoperto che, contrariamente a quando si crede comunemente, il lotto tipico haussmanniano non è triangolare, ma ha quattro facce.
Molti dei vostri progetti in corso lavorano non sulla scala del singolo edificio, ma su quella del quartiere. Penso ad esempio al quartiere Polaris, sull’Île de Nantes.
In questi anni stiamo affrontando questo passaggio fondamentale, che ci dà l’occasione di trasferire le nostre riflessioni sulla forma in movimento, e non solo, alla scala urbana. Vogliamo mettere ulteriormente in discussione la modalità di costruzione della città per accostamento di singoli oggetti, e ripensare il rapporto tra pieni e vuoti.
Per il progetto di Nantes abbiamo concepito il vuoto come la risultante di tutti i pieni; in altre parole, gli edifici sono stati pensati per definire lo spazio pubblico che li circonda. Sembra un’affermazione quasi scontata, ma in Francia è una rivoluzione! Che è resa possibile anche dalla procedura innovativa di gestione del progetto, basato su di un workshop tra tutti gli architetti coinvolti, di cui siamo stati i coordinatori.
Anche a Bordeaux stiamo applicando lo stesso principio. E stiamo proseguendo il processo di riduzione a cui accennavo in merito al progetto delle Batignolles, imponendo per tutti gli edifici la selezione di pochi elementi comuni (poche finestre, pochi corrimani, ecc..). Vogliamo suggerire la possibilità di definire un nuovo DNA urbano, un concetto che si è perso completamente a causa della possibilità di utilizzare una quantità pressoché infinita di materiali e componenti provenienti da tutto il mondo. Questo processo di riduzione delle scelte possibili ha evidentemente anche un risvolto sostenibile, se viene collegato efficacemente ai cicli di produzione locale.
Vi siete affermati in Francia come degli “outsider”, proponendo un nuovo modo di leggere l’architettura e la città. Vi sentite tali ancora oggi?
In Francia esiste una fortissima cultura istituzionale di ogni arte, compresa l’architettura. Da parte nostra, fin da subito abbiamo deciso di schierarci dalla parte di coloro che cercano di mettere in discussione questa “cultura architettonica di stato” che ad esempio, negli anni ’90 e 2000, quando abbiamo cominciato la nostra carriera, promuoveva univocamente l’antimoderno, il colore, il vocabolario.
Ancora oggi sentiamo l’esigenza di estrapolare dei filoni di riflessione teorica dalla contingenza di ogni incarico, per nutrire una cultura disciplinare che in Francia deve sapersi confrontare con la cultura istituzionale di uno Stato sempre presentissimo.
In questo senso mi sento di dire che sì, siamo ancora degli outsider, anche perché purtroppo vedo che pochissimi tra i progettisti delle giovani generazioni condividono la stessa urgenza. Temi di ricerca introdotti anni fa da noi e da altri studi, come Lacaton & Vassal, si traducono oggi in vocabolari svuotati delle domande che li hanno generati (il vocabolario dell’edificio a trama, quello dell’edificio povero, ecc.). È un atteggiamento dogmatico, privo di curiosità e pericoloso. Questo sostanziale vuoto teorico resta una caratteristica specifica e negativa del contesto francese.