Durante la Prima Guerra Mondiale, appena arrivato al fronte come ufficiale, Gio Ponti è stato interrogato da un tenente che non sapeva dove piazzarlo. Non avevano proprio idea di dove metterlo, la questione non si risolveva. Il tenente allora gli chiese “Ma lei come si chiama? ‘Gio Ponti’. Rispose lui. Benissimo, allora la mettiamo a fare i ponti delle barche sul Piave”.
Paolo Rosselli, fotografo e architetto, nipote di Ponti, curatore insieme con Salvatore Licitra della piccola guida Gio Ponti e Milano (Quodlibet) racconta l’aneddoto tornando indietro di quasi 40 anni. “Questa storia mi sta molto a cuore perché racconta, da una parte, il carattere giocoso di mio nonno, dall’altro, il modo di fare degli italiani. Spesso si fanno le cose in questo modo, senza ragionare, ma decidendo lì per lì, a seconda di un’intuizione”.
Agli antipodi il piccolo libro – pubblicato a luglio, anche in versione inglese, ma ideato tre anni fa – è scientifico, accademico, ma anche divulgativo, estremamente curato in ogni sua parte. Un vademecum (con mappa finale) per turisti, architetti e amanti del bello. Una costruzione filologica: dalla didascalia, alle fotografie scelte con cura e disposte in modo da fare un racconto impeccabile. Un formato che lo rende tascabile, Gio Ponti e Milano passa in rassegna gli edifici che l’architetto milanese ha realizzato nella città lombarda. Dove “ogni pagina, un mondo, ogni strada un’opera, ogni stanza un colore”, per dirla con Stefano Boeri che, nella prefazione, paragona Ponti, per assenza di continuità stilistica, a Kubrick.
Una passeggiata milanese – “Milano come laboratorio di ricerca e verifica dell’eterogeneità”, osserva Boeri – da additare tra le pagine del manualetto: si parte con la casa di via Randaccio, la prima realizzata a Milano: pianta a ventaglio, facciata concava con obelischi, appartamenti senza corridoi e uno scalone fuori scala. Oggi, dopo un restauro recente che ne ha lasciato invariato il colore originario, conserva gli stessi interni disegnati da Gio Ponti. Poi il rigore delle case tipiche, chiamate Domus, nella metà degli anni Trenta, i mattoni della casa Rasini di Porta Venezia, Palazzo Montecatini con i suoi marmi, il Palazzo della Rai, casa Marmont e casa Laporte con il tetto-giardino.
“Volevamo fare una guida il più possibile precisa, le informazioni c’erano, ma alcune erano sbagliate. Le notizie che girano su un personaggio sono vere al 90 per cento, rimane sempre quel 10% di errore che è difficile da individuare. I testi, di Lisa Licitra Ponti, sono stati scritti molti anni fa e conservano tutt’ora una loro bellezza. L’abbiamo coinvolta anche per fare un omaggio a lei: una persona che ha lavorato con autonomia e libertà, pur essendo la figlia. In generale c’è stato un grande lavoro di revisione e verifica delle fonti. Non solo, anche per le fotografie, e rispettive didascalie, abbiamo lavorato in maniera complessiva, alternando immagini e disegni, per far capire che i palazzi esistono e sono ancora visitabili. Tante fotografie sono state rifatte e riscattate, scartando e scegliendo la più adatta. Una cosa non facile è stata usare fotografie d’archivio e accompagnarle ad altre con cui stabilissero una relazione visiva. Se c’era un dettaglio, ho cercato d’inserire una fotografia che dialogasse con il dettaglio”, prosegue Rosselli.
Facciate, vedute, modelli scarabocchiati a margine, per esempio, raccontano Palazzo San Babila che, progettato nel 1939 ma realizzato dopo la Guerra, nell’idea di Ponti doveva avere appartamenti alti 7 metri. E poi, ovviamente l’icona: il Pirellone. 127,10 metri di altezza, 18,50 di profondità al centro, 70,40 di larghezza, criticato dagli storici europei e americani, è il risultato di successo di un’invenzione strutturale. Sono gli anni in cui progetta anche per il design con Cassina (nel ’57, un anno dopo, disegna la Superleggera). Insieme ai collaboratori Pier Luigi Nervi e Arturo Danusso studia una soluzione per la stabilità che, per un edificio in cemento armato con un ridotto rapporto larghezza/altezza, poteva essere un problema.
“Il Pirelli, la villa di Caracas, Palazzo Montecatini, la villa di Teheran. Questi sono tra i capolavori di Gio Ponti, a mio parere” commenta l’architetto e fotografo. Il percorso continua con Palazzo Edison, la sede della facoltà di Architettura, degli anni Cinquanta (nel ’52 Alberto Rosselli inizia a collaborare con Ponti), e poi anche l’arlecchina Casa Melandri in viale Lunigiana, Palazzo Assolombarda, il palazzo RAS (oggi sede di Allianz) in corso Italia, progettato con la collaborazione di Piero Portaluppi, del ’62, la Chiesa di San Francesco in via Paolo Giovio, le facciate del Palazzo INA, Palazzo Montedoria del 1970. Alla fine del libro, una sezione biografica con la carta di identità di Gio Ponti, foto di famiglia – anche quella allargata di amici e collaboratori, e quella al Royal College of Art di Londra quando, nel 1968, gli viene conferita la laurea honoris causa.
“La parte finale racconta chi era Gio Ponti, anche con le immagini. Molti materiali sono saltati fuori per caso, mio zio Giulio mi portava scatoloni ritrovati per caso pieni di fotografie d’epoca. E in alcuni casi non siamo riusciti a risalire all’autore della fotografia, come per l’immagine della copertina”, conclude Paolo Rosselli. “A volte, la funzione di un erede è quella di mettere a disposizione del pubblico delle semplici informazioni: in questo caso tutto quello che un architetto ha pensato e costruito nella sua città”.