Pochi giorni fa sono state rilasciate alcune immagini della grande sfera Orbit realizzata da Bjarke Ingels per il Burning Man. Una titanica sfera specchiante che sembra subire la sabbia del deserto che la rende opaca. La struttura ricorda alcuni esperimenti sulle architetture pneumatiche realizzate tra gli anni Sessanta e Settanta, però in uno spirito che sembra aver perso la carica politico-utopica. Esempio chiave che queste esperienze richiamano alla mente è il congresso ICSID 1971 nel festival perpetuo di Ibiza. L’esperienza univa designer e persone comuni sotto il “tetto” di una Instant City gonfiabile. Piuttosto che per il suo grado di spettacolarità, “il progetto è stato interessante nel suo tentativo di creare una struttura sociale che esalti la libertà di scelta e riduca i contatti sociali/le interferenze a un livello accettabile per l’individuo”. Se queste esperienze sono state di ispirazione per i festival di oggi, c’è poco della loro filosofia iniziale in festival elitari come il Burning Man o il Coachella. Se andiamo però ad osservare alcune realtà a una scala ridotta, troviamo un modo diverso di affrontare l’organizzazione di eventi temporanei. È questo il caso di Horst Arts and Music Festival, in Belgio.
Nel 2018 il gruppo Onkruid conclude il ciclo di cinque edizioni di un festival caratterizzato da una attenzione al rapporto tra arti e musica. Negli anni numerosi artisti sono stati chiamati a confrontarsi con l’ambiente che circonda il Castello di Horst, a Holsbeek, tra cui ad esempio Assemble, Anne Dessing e Filip Dujardin. Anche se quest’anno l’attenzione è concentrata su Atelier Bow Wow, i curatori Gijs Van Vaerenbergh hanno costruito un variegato gruppo di invitati sotto il tema “Archetypes”, proprio in riferimento al castello.
Siamo venuti alla scoperta del festival non per il suo programma musicale, ma proprio per il folto numero di architetti invitati nelle precedenti edizioni. Ci aveva colpito una struttura di mattoni forati e cemento che agli occhi di un non addetton ai lavori potrebbe apparire un abusivismo edilizio. L’installazione, realizzata da Architecten De Vylder Vinck Taillieu, sembra rispecchiare una sorta di pragmatismo che trova nella scarna semplicità materica il carattere distintivo dell’architettura. Andando in giro per Bruxelles, non troveremo queste caratteristiche nella dorata Grand Place ma nelle strutture temporanee che caratterizzano i cantieri del vicino Boulevard Anspach.
Arrivando quest’anno ad Horst sembrava di percepire un’atmosfera simile, ma con al centro il Castello. Una struttura temporanea realizzata da 019 accoglie i visitatori per poi guidarli all’interno del festival. Si tratta di Wall un’impalcatura modellata come le mura di un castello da cui si possono raggiungere anche i tre palchi principali. L’installazione con l’impatto maggiore è il Lakeside Dancers Club di Atelier Bow-Wow, un’arena a ridosso del castello che sembra imitare l’arca di Noè, pronta a salpare sul lago. Attraverso una serie di gradinate si può vivere l’esperienza su vari livelli cambiando il punto di vista. Realizzata da Collective Practice, Final Stage colpisce per la sua estrema semplicità. Una piattaforma coperta da un grande “paracadute” delimita una dancefloor, con il dj posto a uno dei suoi angoli. Il progetto fa parte di una ricerca sul concetto di informal shelter che si concentra sull’essenza dell’archetipo del tetto. La copertura leggera converge nel punto centrale, richiamando l’idea di una tenda primitiva.
In mezzo a questo spazio troviamo un elemento fondamentale per l’esperienza del festival: le luci. Una semplice lampadina sembra richiamare lontane lanterne, illuminando con luce fioca la pista da ballo e pendendo sugli spettatori a cui è data però la possibilità di “giocare” spingendola. Si tratta di una delle parti di In Praise of Shadows, progetto del collettivo Children of the Light spina dorsale del festival. Aderendo al tema dell’archetipo il duo ha scelto di non lavorare con sistemi di luci avanzati, ma di riprendere le tradizionali lampade al tungsteno. Se attraverso l’uso del LED tutto diventa tanto più illuminato quanto più sterile, la classica luce ci riporta ad un mondo fatto di ombre e di interazione tra i soggetti. Il carattere geniale è l’aver mescolato un metodo obsoleto, mosso ad esempio dal semplice vento o dalle mani dei partecipanti, con tecniche moderne di controllo remoto computerizzato, che creano continuamente diversi giochi di luce e ombre, lontani dai classici metodi epilettici da discoteca.
Un festival come Horst ci racconta della possibilità di costruire nuove visioni per l’architettura, riprendendo gli esperimenti e lo spirito di iniziative simili, sviluppate tra anni Sessanta e Settanta. La manifestazione si muove verso un nomadismo e una versatilità che sembrano però assomigliare più ai giorni nostri e alla necessità contemporanee di costruire nuovi sguardi per lo spazio urbano e non, in una condizione di movimento continuo, che sradica legami territoriali, preservandoli allo stesso tempo, in una sorta di global-localismo, che riesce a immaginare scenari futuri attorno ad un castello del XIII secolo.