Temporanea, performativa, sottile, ma potente, irrompe tra gli scenari inquinati e sovraffollati della civiltà industrializzata, con lo scopo di dare strumenti nuovi all’umanità responsabile dell’evidente declino del mondo.
In quegli anni, iniziava a farsi largo la presa di coscienza sulla salvaguardia dell’ambiente e, in quest’ottica, alcune utopie sembrano realizzarsi. Lo spazio perde definizioni a discapito dei piani cartesiani, l’architettura si fa di plastica e, non avendo più bisogno di cemento, modifica il proprio peso per adattarsi alle sinuosità del corpo umano nello spazio e in tempi diversi. La progettazione rigenera le sue figure per collocare al centro degli esperimenti sulla forma la “membrana”, nuovo spessore del costruire che concorre a mettere in crisi i valori fondativi dei codici morali dell’abitare quotidiano.
I mezzi, con i quali si dà spazio ai nuovi significati, si assumono la responsabilità di doversi allontanare categoricamente da ciò che è ordinario, mescolando i colori e utilizzando generatori d’aria, rendendo le proposte evidentemente disgiunte da un presente, a cui non appartengono.
La città comincia a familiarizzare con un’estetica straniante e incoerente con se stessa, perché fatta di storie simultanee, propria di una sconfinata e inarrestabile diffusione policentrica già in opera, che impone la revisione dei rapporti tra natura e artificio, tra artificio e artificio, dunque, tra uomo e uomo.
L’attenzione per l’habitat è nodale per i concetti espressi in tutta l’opera del gruppo HRC, difatti il loro spazio definisce sempre dei limiti per poter esistere, condizione essenziale per l’architettura pneumatica, progettata dal gruppo viennese, o di una qualsiasi scenografia, che si mostra su un fronte per nascondere un retro.
Lo studio, appena avviato a Vienna, trasferisce la sede delle attività prima a Düsseldorf e poi a New York dove, congruentemente alla ricerca svolta sugli Urban Toys e la loro incombenza sul territorio, esibisce l’idea secondo cui la progettazione non può prevedersi se non con caratteri inscindibili dalla volontà del pubblico che poi fruisce quell’architettura e, quindi, deve poter esplorare e godere dei processi di trasformazione tramite l’interazione. Una grossa torta, ritratto della metropoli newyorchese con il suo reticolo di isolati, celebrava la partecipazione aperta distaccandosi dalle istituzioni, come quella del museo, e riferendosi alla necessità di cambiare i livelli di percezione.
La contemporaneità non ha ancora abbandonato l’instabilità affrontata dall’architettura radicale degli anni Sessanta e Settanta, per questo condivide le speranze maturate in quel tempo e le traduce in elaborazioni quanto più realistiche e attuabili per sanare l’indebolimento dell’equilibrio globale.
Il gruppo Haus-Rucker-Co vede la sua scissione definitiva nel 1992, ma il riverbero delle loro opere è rintracciabile nei profili di molti altri architetti, artisti, autori che educano il proprio lavoro secondo visioni di utopia a sfondo sociale. Orbit (2013) di Tomás Saraceno, presente in una delle sale al fianco di Giant Billiard (1970), plasticizza lo spazio al fine di liberare l’uomo dai vincoli di gravità; il compito dell’opera d’arte è rifondare un’apertura del mondo, richiamando Martin Heidegger, ma è anche il sogno dell’uomo che da sempre cerca di superarsi in una lotta per l’evoluzione.
fino al 22 febbraio 2015
Haus-Rucker-Co: Architectural Utopia Reloaded
Haus am Waldsee, Berlino