Il progetto moderno ha trovato nell’America Latina un terreno particolarmente fertile dove esprimere le proprie ambizioni di rinnovamento sociale attraverso un discorso sullo spazio abitato che appare essersi manifestato in maniera più naturale qui rispetto ai luoghi che lo avevano postulato come teoria.
Beyond the Supersquare
L’unicità del modernismo sudamericano è al centro della mostra al Bronx Museum of the Arts di New York, culmine di una ricerca e di un dibattito in cui artisti, urbanisti, architetti e studiosi si erano confrontati sull’impatto dell’architettura e delle idee moderniste in America Latina e nei Caraibi.
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- Francesco Zuddas
- 28 maggio 2014
- New York
Il canone spaziale ed estetico professato dagli architetti moderni si è infatti espresso con caratteri di originalità nei Paesi sudamericani, caratterizzandosi nei casi migliori – Niemeyer, Mendes da Rocha, Bo Bardi, per citare solo alcuni “classici” – per una capacità spesso inusuale nel Vecchio Continente di portare a sintesi gli ideali di modernizzazione sociale e tecnologica con un ruolo interpretativo dell’architettura nei confronti della dimensione paesaggistica naturale. Non a caso Le Corbusier trovava proprio nella struttura formale del paesaggio di posti come Buenos Aires o Rio de Janeiro – e non nella New York la cui spazialità appariva agli occhi dell’architetto svizzero solo una parziale manifestazione dell’ideale Moderno – la propria nuova musa dopo l’acropoli e i transatlantici. Le Corbusier individuava quei luoghi come destinazioni per una rinnovata opera colonizzatrice da parte dell’Occidente e, al contempo, come oggetti di studio da cui estrarre gli strumenti per far avanzare la stessa teorizzazione spaziale modernista.
Tale unicità del Modernismo sudamericano è al centro della mostra “Beyond the Supersquare” al Bronx Museum of the Arts di New York (fino all’11 gennaio 2015). La mostra è il culmine di una ricerca iniziata quattro anni fa e che aveva avuto un proprio momento centrale nella conferenza organizzata presso il museo nell’ottobre 2011, e in cui artisti, urbanisti, architetti e studiosi si erano confrontati sull’impatto dell’architettura e delle idee moderniste in America Latina e nei Caraibi. L’intenzione è quella di guardare ai modi in cui l’onda lunga del Modernismo – qui individuato non tanto nella sua fase d’avanguardia quanto in quella più applicativa del Secondo Dopoguerra – influenza l’opera di artisti contemporanei. Il pregio principale del progetto curatoriale sta nella decisione di non ambire a una visione globale retrospettiva del Movimento Moderno in architettura nell’America Latina, né tanto meno di presentarne l’eredità attraverso una più scontata disamina di pratiche architettoniche attuali.
Piuttosto, la curatrice Maria Inés Rodriguez e la direttrice Holly Block hanno affidato all’opera di trenta artisti contemporanei, principalmente provenienti dai paesi dell’America del Sud e dalle isole caraibiche, il compito di offrire uno sguardo sul lascito del modernismo. Questo si combina con un altro interesse formulato come domanda alla base della mostra: in che stato versano oggi le città sudamericane sviluppatesi sotto l’impeto del progetto moderno? Nella combinazione di queste due domande di fondo – l’eredità in termini di pratica artistica e l’osservazione della città sudamericana contemporanea – sta sia l’aspetto originale che quello più conflittuale e che talvolta sconta la difficoltà di una sintesi totalmente convincente, di una mostra per altro ben curata ed esposta negli spazi del rinnovato museo del Bronx.
Architettura moderna e processo di modernizzazione vengono spesso trattati come sinonimi o come lati di una medesima medaglia. Per quanto una tale concezione esprima un grado di correttezza nel leggere l’ambizione totalizzante di una generazione di architetti nei confronti della potenzialità e del ruolo del proprio lavoro all’interno della società, si tratta di un’assimilazione che inevitabilmente conduce ad individuare nell’architettura e nei suoi artefici un privilegiato capro espiatorio per il fallimento di un ideale di sviluppo. In altri termini, dall’esaltazione dei caratteri innovativi dell’architettura moderna alla denuncia dello squallore urbano e degli incommensurabili problemi delle megalopoli contemporanee il passo è molto breve. Ed è questa la tentazione in cui anche la mostra non può fare a meno di cadere, esprimendo attraverso alcune opere esposte la reiterazione di un discorso polemico ormai da lungo tempo in circolazione e che stenta ad esprimere alcun effetto costruttivo nei confronti di ciò che si vuole condannare. Così, i punti più deboli dell’esposizione appaiono nelle video-installazioni che mostrano i luoghi della continua suddivisione spaziale dei sobborghi o che attribuiscono in maniera indiscriminata la targa di “Paesaggi Inutili” (Paisaje inutil/Useless landscape di Pablo Leon de la Barra) a un’ampia casistica di situazioni spaziali della città contemporanea che talvolta necessiterebbero di una più approfondita considerazione della propria indubitabile rilevanza sociale all’interno della città.
Eccezion fatta per tali episodi, il discorso si fa più interessante quando si sofferma maggiormente sulla pratica artistica e sui modi in cui questa reitera o mette in crisi procedure derivate dall’immensa miniera del movimento moderno in architettura, ovvero in opere come il video The Hope and the Rope di Manuel Pina sul processo di autocostruzione residenziale a Cuba negli anni Sessanta; le investigazioni di griglie e spazialità bianche dei video in stop-motion di Magdalena Fernandez; la sedia realizzata da Fernanda Fragateiro sul progetto di Clara Porset e Xavier Guerreiro originariamente presentata per il concorso per “Low-Cost Furniture” organizzato dal Museum of Modern Art di New York nel 1950; il minimale Base Hierarquica in cui Andre Komatsu presenta il gioco di materiale e pesi implicito nell’idea moderna di levitazione dello spazio costruito su un suolo liberato e reso alla natura.
La mostra si apre con una serie di fotografie di Alberto Baraya che introducono il visitatore al tema attraverso il ritratto di alcune tra le icone architettoniche che hanno segnato il paesaggio urbano sudamericano dal dopoguerra e, tra queste, le opere di Oscar Niemeyer per Brasilia. Ed è proprio con una fotografia del funerale di Niemeyer nel 2012 – una cerimonia spiata da dietro una tenda-sipario – che si conclude l’esposizione. A indicare, nella scomparsa di colui che aleggia come spettro sulle opere esposte, una speranza per poter davvero andare “Beyond the Supersquare”.
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Fino al 11 gennaio 2015
Beyond the Supersquare
The Bronx Museum of the Arts, New York