Nasce a Bermondsey la nuova White Cube di Jay Jopling. Inaugurata in ottobre per la Frieze Art Fair, colpisce immediatamente per alcuni aspetti in apparenza discordanti: un edificio dall'esterno tutto sommato dimesso; le dimensioni inaspettate, all'esterno come all'interno - è già celebrata come la galleria privata più grande d'Europa; la sequenza sofisticata degli spazi, dove tutto sembra arrestarsi come in assenza di gravità per lasciar parlare l'arte.
Non è secondaria la scelta stessa di insediarsi a Bermondsey Street. La sede doveva diventare un magazzino per le altre due White Cube, ma presto si è compresa l'opportunità, il potenziale di uno spazio simile, posizionato nel bel mezzo di un quartiere di grande vivacità, già in forte gentrificazione, a ridosso della riva sud del Tamigi. Si decide il cambio in fretta, e solo in aprile, ovvero circa sei mesi prima dell'inaugurazione, il Council di Southwark approva il progetto di riconversione (nel 2008 aveva respinto un progetto residenziale di 7 piani sullo stesso sito).
La White Cube Bermondsey è un evento: si impone per la sua importanza nel mercato mondiale dell'arte; si impone nel processo di trasformazione urbana del quartiere – con un programma che va al di là di quanto una galleria commerciale possa contenere: c'è una libreria, un auditorium, un archivio.
Si impone perché è anche un'opera architettonica di singolare bellezza, progetto dello studio Casper Mueller Kneer con sede a Londra e a Berlino. Incontriamo Marianne Mueller e Olaf Kneer nello studio vetrato nel cuore del Barbican, per conoscere da vicino questa esperienza.
White Cube Bermondsey
Marianne Mueller e Olaf Kneer, dello studio CMK, raccontano a Domus il progetto della galleria d'arte contemporanea più grande d'Europa.
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- Emilia De Vivo,Alessandra Como
- 21 marzo 2012
- Londra
Casper Mueller Kneer: Fin da subito abbiamo trovato interessante dover ragionare su un edificio così grande: una sorta di magazzino industriale degli anni Settanta che misura 75 per 75 metri circa, a pianta quasi quadrata. Forma e dimensioni abbastanza insolite in quel particolare contesto urbano. Insolito era anche il rapporto con la strada, segnato da un muro in mattoni a filo marciapiede, mentre l'edificio è arretrato, in fondo al piazzale.
Vasta per certo al confronto con altre gallerie private, la nuova White Cube è grande dunque, proprio rispetto alla scala della strada e del quartiere. È una sorta di pausa spaziale che rompe lo schema della quinta stradale compatta ed entra d'autorità nel ritmo urbano fitto, in quel tessuto denso e minuto dove parti residenziali, negozi indipendenti, molti atelier e piccoli ristoranti si compongono in un mix perfetto.
Il vecchio muro perimetrale in mattoncini viene demolito per far posto nel progetto a un limite parzialmente trasparente. La nuova recinzione è fatta di 151 lame in acciaio disposte a taglio nel senso della larghezza, poggiate su una base ampia abbastanza, da far da sedile verso l'interno. Le lame così disposte chiudono - e aprono - a sguardi sempre diversi, a seconda dell'angolazione del punto di vista. Se si guarda da un angolo obliquo sembra un muro, se ci si avvicina si apre quasi a scomparire.
CMK: Il progetto della recinzione è stato negoziato con il Southwark Council (Consiglio di zona) e il Conservation Department (Soprintendenza). I limiti della strada erano ritenuti intoccabili, Bermondsey Street è di origine medievale, stretta e delimitata e si intendeva mantenere quell'idea. Tutti ritenevano brutto il vecchio muro ma nessuno avrebbe mai rinunciato alla sua precisa funzione di segnare il limite storico della strada. Quel muro è diventato una recinzione che apre, non nasconde, ci si siede. C'è poi il nuovo ingresso alternativo, posto ad angolo, che ha cambiato l'asse al sito.
Il cortile è pavimentato in granito grigio chiaro, calcolato opportunamente per pesi e manovre di carico e scarico. Manovre a parte, prima ancora di entrare, quello spazio d'attesa fa pensare immediatamente a installazioni e mostre all'aperto. In quello spazio dal "respiro vuoto", l'ingresso alla galleria è segnato da una grande pensilina bianca, modernista: uno sbalzo di 6,5 mt senza pilastri che nobilita l'immagine industriale con un solo gesto. Unico segno architettonico propriamente detto, visibile dall'esterno, la pensilina annuncia la strategia di volumi, di spazio e di frammenti di spazio, che ci attende all'interno.
La nuova White Cube è una sorta di pausa spaziale che rompe lo schema della quinta stradale compatta ed entra d'autorità nel ritmo urbano fitto del quartiere medievale. All'interno l'architettura è affidata all'arte: un sistema flessibile che appare e scompare
La galleria ha una indipendenza totale rispetto all'edificio esistente – sia strutturale che funzionale; è come un guscio nel guscio. L'immagine resta industriale, ma all'interno tutto si trasforma. I nuovi spazi sono stati inseriti come strutture indipendenti: pavimento, pareti, soffitti, sono autonomi per rispondere ai requisiti necessari in termini di capacità di carico, proprio come avviene in un museo. Più volumi compongono la galleria e sono tutti interni all'involucro preesistente ad eccezione della galleria cubica, la cosiddetta "9x9x9", che trapassa le superfici di copertura.
CMK: La scala dell'impianto ha ciò che ha guidato il progetto. Spazio e luce sono stati i due elementi più importanti che abbiamo scoperto con sorpresa nel vecchio edificio. Aree molto grandi e senza colonne e un tetto a schema regolare di lucernari ci hanno dato la possibilità di dosare la luce naturale a vari livelli, una condizione molto rara da trovare in una galleria d'arte. Il nostro punto di forza è stata la più lunga dimensione attraversabile da un'estremità all'altra dell'edificio per circa 70 metri; l'idea del grande corridoio, del percorso/passaggio – largo 5,5 m - è stata molto importante per l'intero progetto.
Le tre aree espositive principali sono sistemate sui due lati del corridoio, ognuna con un suo proprio carattere espositivo per condizioni di spazio e di luce; ognuna ha un diverso tipo di scala, di estetica, di acustica. Così la Galleria Nord, a carattere più sperimentale, ha solo la luce fluorescente e può essere suddivisa in ambienti piuttosto piccoli; la sala 9x9x9 è illuminata con luce naturale dall'alto e ha le proporzioni di un cubo; la Galleria Sud è invece grande, schiacciata e aperta. Forse l'aspetto veramente importante è proprio il gioco di volumi, il modo in cui si compongono in sequenza.
La natura profonda dell'intero sistema è la sua flessibilità: quelli che appaiono come massicci muri bianchi possono slittare, si possono muovere e ruotare. È possibile far scorrere intere pareti, spostare pannelli di 5.5 mt di altezza per una larghezza variabile di circa 3 mt grazie ad un sistema che fa leva su un unico perno, e ottenere così diversi tipi di aggregazione spaziale. Una sorta di galleria "mobile" che può cambiare completamente volto: gli spazi che sono, appaiono, spariscono, si modificano. Nel mostrare e nascondere, nella dissolvenza, gli architetti vedono la vera emozione del progetto. L'architettura è affidata all'arte. Le possibilità di trasformazione investono percorsi, superfici, sistema di ingressi e, pur lasciando come costante lo spazio dell'asse centrale, consegnano l'impianto architettonico alle scelte espositive, alle necessità variabili delle mostre e dunque alla volontà dei curatori. La questione non diventa semplicemente di tipo distributivo, ma sostanziale del senso dello spazio: uno spazio che coincide con l'evento, che si trasforma con il diverso scenario e la diversa situazione progettata.
L'asse centrale è come una strada su cui si affacciano spazi e volumi e dunque i diversi tipi di aggregazione sono come possibili scenari urbani. L'insieme, infatti, nell'esperienza della visita reale, quando si cammina nello spazio corridoio, è come una città, una città astratta. Nella relazione dinamica tra il percorso, la strada e gli spazi a cui si accede - le stanze – si realizza l'interazione ideale tra visitatore e galleria diventando allo stesso tempo spettatori e protagonisti. Lo spazio-corridoio è uno spazio astratto, un asse potenzialmente infinito, senza inizio né fine, che ci fa penetrare all'interno di un mondo-altro, uno spazio quasi metafisico, ma nello stesso tempo reale e concreto, caratterizzato dai materiali grezzi del mondo industriale con il soffitto in rete di acciaio e il pavimento in cemento. Uno spazio che non si attraversa, si sperimenta. L'atmosfera è quasi magica, quella che ci serve per essere parte di quel mondo dell'arte che a Londra in particolare, quasi affianca la vita delle persone. Quel "respiro vuoto" all'ingresso che sembrava quasi estraniante, assume il ruolo di spazio catartico: ci fa dimenticare il mondo reale, ci libera dalla città, dai rumori, dalle viste, dalle relazioni urbane per introdurci allo "spazio dell'interno", in realtà pari ad un esterno, seppure "esterno" di un altro mondo.
White Cube è una committenza a dir poco complessa. È grazie all'intuito di Jay Jopling, suo fondatore, se conosciamo artisti come Damien Hirst, Tracey Emin, i Chapman o Antony Gormely. Abbiamo chiesto a Casper Mueller Kneer se e quanto la relazione con un committente di tal calibro abbia condizionato il progetto.
CMK: Il nome White Cube è di per sé un programma. Se c'è un tema che può sintetizzare le lunghe discussioni è quello dell'invisibilità delle cose. Come si fa cioè a costruire uno spazio in modo astratto, in modo invisibile, in modo che tutto lo spazio possa "sciogliersi"? Rendere possibile l'invisibilità delle cose ha richiesto una disciplina progettuale straordinaria.
Eppure c'è una forte materialità a far da contrappunto all'immaterialità dello spazio, c'è la concretezza e la tangibilità di molti elementi. Osservando più da vicino, percorrendo gli ambienti, si scoprono dettagli e differenze, disassamenti, variazioni, giunti sfalsati e rotazioni che rendono lo spazio più reale e ci riconducono a una materialità che aggiunge profondità, contrastando la (voluta) astrattezza bidimensionale. Comprendiamo che l'obiettivo dei progettisti era una complessità dell'insieme estremamente raffinata, nascosta, come cifrata, piuttosto che il tributo di maniera ad una purezza minimalista o irreale.
CMK: Volevamo mantenere il carattere industriale dell'edificio. È stato come garantire una sorta di equilibrio al progetto in un ribattere di astrazione, dissolvenza e tattilità. Per gli stessi motivi abbiamo utilizzato materiali rigorosamente non trattati – anche se la tavolozza è incredibilmente limitata - tutti i materiali sono come sono. Il soffitto d'acciaio è un acciaio grezzo, così come viene dall'acciaieria. L'idea era che tutto dovesse rimanere puro e come non trattato, quanto il più possibile non lavorato. Così il pavimento di cemento è letteralmente un pavimento di cemento. Non ci sono additivi, non c'è nessun colore, è esattamente il cemento di Londra. Nella storia delle White Cube non esisteva fino ad ora l'introduzione di un materiale "tattile", tutto era abbastanza "bianco". Nel nostro caso la novità è proprio il richiamo a una forte materialità.
Alla fine dunque, il progetto si rivela essere molto più di quanto ci si aspettava, più di quello che sembrava manifestarsi all'ingresso, dove tutto sembrava visibile come già svelato, simile ad altri spazi, alle altre White Cube o ad altri luoghi del contemporaneo con i quali pure condivide linguaggio e uso di materiali.
È di più perché questo progetto ha il potere di catturarci e ricondurci in spazi lontani, magici. Spazi che intessono relazioni con l'immaginario della città e delle visioni della città nell'arte – come lo spazio urbano di De Chirico o la città dell'Eur di Fellini.
Sono visioni che mostrano una città irreale che diviene reale perché ne rappresenta l'idea originaria.