Contemporaneamente quegli anni sono coincisi con un momento di grande vitalità dal basso dell'architettura italiana emergente, con un misto di neo-situazionismo, riscoperta radicale, scossoni digitalisti, ad alimentare la sensazione che, finalmente, qualcosa di nuovo e laico si stesse muovendo, dopo almeno due decenni di torpore accademico e di stagnazione sperimentale.
Appare quindi evidente come il maggior numero di queste opere 'promesse' venisse caricato di aspettative e desideri almeno da una parte della cultura architettonica italiana, in attesa che questi segnali diversi scuotessero una società disabituata al contemporaneo e ai suoi nuovi spazi. Poi, al clamore delle scelte e dei primi rendering pubblicati, sono seguiti il lento, italico passare amministrativo del tempo, le difficoltà finanziarie, i cambi di gestione politica, l'atavica, pericolosissima sensazione che le scelte coraggiose sarebbero state lentamente, ma inesorabilmente, sepolte sotto quintali di carta bollata e di indifferenza pubblica.
È quindi interessante tornare, dopo qualche anno, sul luogo del delitto presunto e constatare che, invece, le due opere romane non solo sono state portate a compimento, ma sono soprattutto sopravvissute a tutti quei mali nazionali che hanno decretato la morte silenziosa di tanti importanti concorsi di architettura aggiudicati precedentemente. Merito evidente di chi ci ha creduto: i suoi committenti innamorati e fedeli, i curatori ostinati, le amministrazioni picaresche popolate, però, da tanti bravi, anonimi funzionari, e i progettisti che hanno resistito, nel tempo, all'idea di mandare tutto all'aria prima del compimento.
Credo che sia importante guardare innanzitutto a queste opere come a straordinarie forme di resistenza culturale a un contesto indifferente alla qualità e alla sperimentalità applicata al reale, e insieme leggerle come dei segnali inesorabili che anche in Italia "si può fare" e che si possono generare luoghi urbani portatori di un modo diverso e problematico di immaginare oggi lo spazio pubblico. Il MACRO è uno di questi esempi concreti da indagare e capire nei prossimi anni. Scrivo questo perché sarebbe bello pensare che, una volta tanto, la critica e le riviste possano permettersi il lusso di tornare, dopo qualche tempo, e magari con l'architetto che li ha progettati, sui luoghi celebrati alla loro nascita, per verificare come la vita reale e la gente abbiano abitato, trasformato e magari anche contestato l'opera di architettura che ha cambiato i destini di quella porzione di città.
Camminando quindi tra i ponteggi e gli spazi che stanno prendendo definitivamente forma mi piace guardare al MACRO come a una promessa realizzata, a un luogo che non chiede altro che la vita quotidiana lo faccia vivere e lo metta in discussione. Il MACRO si è sempre presentato come un'opera critica e felicemente problematica. Espressione del talento inquieto della signora "in nero" M.me Odile Decq e opera-manifesto di un modo aperto di immaginare uno spazio per l'arte contemporanea che fosse anche un frammento urbano vitale nel cuore di Roma.
Non credo sia facile per alcuno lavorare nel ventre molle e stratificato della città millenaria; giocare con le memorie, i riferimenti visivi, letterari e sensuali, le immagini abbacinanti, le materie accumulate è sempre rischioso, anche per un autore di talento e ricchezza concettuale come la Decq. Si corre sempre il rischio di voler dire troppo e di cadere vittima di un narcisismo autobiografico che appesantisce anche il miglior progetto.
Ma l'impressione che si ha dal nuovo MACRO non è solo quella di un'opera che ha resistito bene agli anni passati per essere realizzata, ma soprattutto di un nuovo ingranaggio urbano contemporaneo con un sistema ricco e molteplice di esperienze spaziali che vanno oltre il semplice sistema espositivo per l'arte moderna e contemporanea. La volontà di mantenere tutto il sistema museo come un organismo instabile, innervato da un reticolo irrequieto di punti di vista, passerelle, percorsi, ballatoi, fa del MACRO un luogo urbano introverso che è innanzitutto un'esperienza della scoperta da parte del visitatore.
Dall'ingresso che dichiara immediatamente questa ricchezza di percorsi che guidano attraverso le sale e le aree pubbliche fino al tetto-giardino-ristorante dove la città si rivela improvvisamente, e in tutta la sua ricchezza, il museo diventa innanzitutto luogo dell'esperienza possibile, labirinto generoso che moltiplica i punti di vista e offre immagini alternative ai nostri tradizionali punti di vista. La vecchia fabbrica Peroni apre definitivamente i suoi recinti e la città entra nel museo, con i suoi tagli e gli sguardi verso l'interno aperti sulla facciata, con il suo nuovo tetto che segnala il cambiamento avvenuto, con le materie contemporanee, poche e potenti, che dialogano con l'esistente restaurato con attenzione, restituendo a tutti noi non un'icona industriale mummificata, ma un'opera di architettura contemporanea inquieta, aperta e pronta per essere abitata.
Luca Molinari
MACRO, Museo d'Arte Contemporanea, Roma
Progetto e direzione artistica: "sarl Odile Decq Benoît Cornette – architectes urbanistes – Paris", in collaborazione con Burkhard Morass Committente: Comune di Roma
Progettazione architettonica: Giuseppe Savarese con Frédéric Haesevoets e Valeria Parodi
Renderings: Odile Decq – Labtop Strutture: Studio di ingegneria delle strutture, Livorno, con Batiserf, Grenoble
Servizi e sicurezza: A.I. Studio – A.I. Engineering,Turin
Direzione dei lavori: Zètema Progetto Cultura s.r.l. Impresa di costruzione: Consorzio Cooperative Costruzioni, con la Cooperativa di Costruzioni
Area totale: 7,000 m2 (foyer, spazi espositivi, sala lettura, spazi art-video, art cafè, ristorante, studi degli artisti, magazzino opere, magazzino merci), 3,000 m2 (terrazza-giardino), 5,000 m2 (parcheggio)
Periodo di progettazione: 2001 – 2003
Periodo di realizzazione: 2004 – 2010

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