Refuge, Five Cities di Bas Princen

Bas Princen racconta a Joseph Grima il suo nuovo progetto, in mostra alla galleria Storefront di New York dal 12 maggio al 26 luglio.

Il tuo approdo alla fotografia è avvenuto dopo qualche anno di studio al Berlage Institute di Rotterdam, come parte di un gruppo di fotografi (Gabriele Basilico, Sze Tsung Leong, Francesco Jodice, per citarne alcuni) che non solo sono stati profondamente influenzati dal discorso contemporaneo sull'architettura e l'urbanistica, ma che si sono anche formati per recepirlo. Forse si potrebbe parlare della tua relazione con l'architettura e di come questa abbia ispirato – o forse addirittura definito? – il tuo lavoro come fotografo.
Mi vedo come qualcuno che è più abile a 'creare', piuttosto che semplicemente a 'documentare'. In questo senso concepisco la macchina fotografica come uno strumento per costruire idee su spazi o luoghi, o idee su architettura e paesaggio. Quando insegno lo faccio in scuole di architettura, la maggior parte dei miei amici sono architetti, e sono per lo più architetti quelli che percepiscono i riferimenti a concetti o idee di architettura che esprimo nel mio lavoro – un livello che rimane spesso poco chiaro o nascosto ai molti non-architetti. Quindi, sì, sono formato e definito dall'architettura e mi sento a casa lì. È il mio punto di partenza – quello da cui posso creare un lavoro apprezzato da un gruppo più ampio di spettatori.
Tutti i fotografi che hai citato hanno forti legami con gli architetti. Penso che abbiano svolto un ruolo importante nel comunicare concetti complessi come sprawling suburbias, megacities e nella ricerca su fenomeni urbani effimeri che sono ormai diventati concetti comuni per gli architetti. Ma sono anche riusciti a prendere queste idee e farle proprie, isolandole come idee e concetti. E come tali hanno fornito un equivalente visivo agli schemi senza fine degli architetti, contribuendo al mondo dell'arte contemporanea tanto quanto al discorso architettonico. Spero e mi sembra che il mio lavoro funzioni in modo simile.

Il tuo progetto più recente, Refuge, potrebbe essere descritto come un ritratto di gruppo di cinque città del Medio Oriente. Una delle cose che trovo più interessante di queste fotografie è che sono allo stesso tempo familiari ed estranee - forse perché hai preso i territori inesplorati delle loro periferie come punto di partenza, privando da questa posizione lo spettatore di molti degli usuali punti di riferimento architettonici.
Il mio obiettivo principale in questo progetto era quello di creare una serie di fotografie in cui Amman, Beirut, Il Cairo, Dubai e Istanbul scomparissero come singole città e luoghi specifici, dissolvendosi invece in un nuovo tipo di città, in un ente immaginario urbano in formazione. Questa premessa mi ha indirizzato a luoghi specifici della periferia, dove i pezzi della città sono in formazione, quasi come le isole, e questo spiega il mio interesse per i campi per i rifugiati e per le comunità recintate. Oltre a questi due esempi estremi di 'rifugio', ci sono molti esempi più leggeri – o, diciamo, meno evidenti - che possono essere posizionati a metà strada tra questi due. 'Garbage City' al Cairo, per esempio, non è recintato, ma è una parte chiaramente definita e auto-controllata della città, con una funzione molto specifica nel tessuto della città esistente.

Potremmo definire Refuge come parte di un più vasto progetto in corso che documenta le tracce delle trasformazioni sociali, demografiche e culturali nel paesaggio contemporaneo (urbano)? In altre parole, sarebbe giusto dire che il tuo interesse è di utilizzare l'architettura e l'urbanistica non come un fine in sè, ma come un modo di leggere la società contemporanea?
Credo che sia importante mantenere le cose chiare. Quando fotografo, sono molto consapevole del fatto che devo comunicare attraverso il mezzo fotografico, attraverso un'immagine. Quest'immagine deve trasmettere tutto quello che voglio dire: non ci dovrebbe essere bisogno di un testo che spieghi ciò che si sta vedendo. Non sono sicuro se sia possibile 'documentare' le trasformazioni sociali, demografiche e culturali attraverso la fotografia, ma penso che sia possibile mostrare certe astrazioni di questi fenomeni. Semplificazioni, per così dire, che ci aiutano a capire frammenti di un mondo urbano, o che possono scatenare i nostri interessi o la nostra immaginazione in ciò che sta realmente accadendo intorno a noi.
Il mio lavoro ruota attorno la condizione della città contemporanea. L'architettura che vediamo in una città e nelle mie fotografie non è solo uno sfondo della vita urbana, ma è piuttosto il risultato inevitabile di esso. Mi piace mantenere le mie fotografie astratte, il modo in cui i modelli e le idee possono essere astratti - la cosa più interessante della fotografia è che si possono utilizzare scene di vita reale per evocare scenari fantastici. Con la fotografia, un luogo può essere reale e irreale allo stesso tempo.

È interessante quando fai riferimento al parallelismo tra l'astrazione di un modello architettonico e l'astrazione della fotografia. Gli architetti in genere utilizzano modelli per testare le idee già esistenti, ma anche per crearne di nuove e talvolta fare inaspettate scoperte - è vero lo stesso nella tua fotografia?
Le rappresentazioni per modelli sono utili perché rivelano - per semplificazione o isolamento - un frammento della realtà. Essenzialmente i modelli sono riduzioni o astrazioni. La fotografia ha un rapporto simile con la realtà, è soprattutto la riduzione - la cornice - che costruisce l'immagine. Tutto ciò al di fuori della cornice diventa irrilevante, ma la proiezione che lo spettatore crea al di fuori della cornice diventa lo spazio reale dell'immagine.
Io uso la macchina fotografica soprattutto per escludere le cose dalla cornice. Per rendere la fotografia più coerente, o più semplice, cerco di ridurre il contesto il più possibile, cosa che mi permette di concentrarmi su una particolare idea di un luogo.
Mentre lavoro trascorro un paio di giorno in una zona, tornando nella stessa posto diverse volte, ma è solo quando ho settato la macchina fotografica e guardo attraverso l'obiettivo che scopro qualcosa. Quindi, disegno o scrivo rapidamente quello che penso dell'immagine che ho visto attraverso la macchina fotografica e, più tardi, durante la scansione e la post-produzione, cerco di arrivare il più vicino possibile all'idea che ho avuto mentre fotografavo. Quindi sì, si potrebbe dire che uso le fotografie come un mezzo per costruire un'idea, e la macchina fotografica/cornice mi aiuta a vederlo.

In Refuge, un tema ricorrente nel tuo lavoro è l'onnipresenza della modernista struttura in cemento armato lastra e colonne. Si tratta qualcosa cui hai guardato prima, in particolare nei paesaggi extra-urbani dell'Europa orientale: una sorta di neo-vernacolare universale che ricorda molto la Maison Domino di Le Corbusier. Puoi parlarci del tuo interesse per l'architettura vernacolare contemporanea, un tema forte nel tuo lavoro e in particolare in Refuge?
Dalla Cina fino al Nord Africa e all'Europa orientale, la struttura in cemento armato – come quella della Maison Domino – ricorre spesso, essendo la più semplice ed economica che una famiglia possa costruire in un piccolo appezzamento di terra. Queste sono poi di solito riempite con mattoni locali e probabilmente questa restrizione all'utilizzo di materiali locali è quella che porta a pensare all'architettura vernacolare – non in senso tradizionale o nostalgico, ma in un'accezione un po' più aspra, globalizzata del termine.
È affascinante che la Maison Domino, il prototipo per eccellenza modernista concepito come soluzione universale al problema degli alloggi, alla fine abbia ispirato la scelta del metodo per la costruzione informale, con o senza l'ausilio degli architetti. Le molte interpretazioni del celebre prototipo della Maison Domino che ho visto sono una chiara indicazione che questo è diventato il tipo di costruzione che ha ottenuto universalmente più successo, ma niente mi aveva preparato al Cairo, dove questo sistema strutturale è davvero spinto ai limiti – non solo perché questi edifici in cemento e mattoni rossi raggiungono fino al 16 o 17 piani, ma anche perché tre quarti della città è costruita in questo modo. È un'esperienza terribilmente affascinante: guidare su una strada sopraelevata in questa città di torri in mattoni rossi, cercando di immaginare chi vi abiti in realtà.
Questo è un esempio di una citazione architettonica che risuona in modo particolarmente chiaro con gli architetti, ma nella serie Refuge ho anche strutture fotografato che somigliano all'Architektons di Malevic, un edificio-cubo nero che riprende il Kabaa e una versione della Torre di Babele a Dubai. Spesso cerco di raddoppiare una fotografia con un concetto architettonico o con una visione, o attraverso il dialogo con l'immagine di un altro fotografo. Quando si fotografa 'Ring Road Cairo', per esempio, pensavo alla fotografia scattata da Albert Renger Patzsch di Bonifacio Zeche – che mostra un edificio-miniera di carbone costituito da due torri con uno scheletro in metallo con tamponamento in mattoni, in stile Bauhaus – un'immagine efficace di architettura modernista.

Pensi che la fotografia di architettura (o almeno la fotografia che si occupa di temi architettonici) abbia perso interesse per le persone? In generale, da oltre mezzo secolo c'è stato un graduale spostamento di interesse e di scala dalle abitazioni, o dalla strada, (penso ad esempio agli scatti di Nigel Henderson sulla vita di strada a est di Londra che è stato di forte ispirazione per gli Smithson) alla più distaccata, impersonale scala del paesaggio urbano.
Credo che l'obiettivo principale all'interno dell'architettura si sia in generale spostato dalla scala urbana media delle strade e dei quartieri in due direzioni: verso l'oggetto architettonico e, contemporaneamente, verso la scala della città. Mi sembra giusto dire che, nella maggior parte fotografia di architettura, l'interesse si sia spostato, di conseguenza, verso l'oggetto architettonico, da un lato e verso il paesaggio urbano, dall'altro. Ciò significa che la cosiddetta 'media distanza' non è stata utilizzata tanto nella recente fotografia di architettura. Ed è proprio in questa distanza media che la figura umana diventa un elemento interessante: non può essere indicata come il soggetto principale, ma sarà sempre definita dal rapporto con l'ambiente circostante, nell'aggiunta di un significato o di uno strato in più al paesaggio o all'oggetto fotografato.

Alcuni dei tuoi progetti precedenti, in particolare Artificial Arcadia, ha presentato una visione del paesaggio contemporaneo come qualcosa di artificiale, quasi sempre, anche quando non vi è alcun segno di intervento umano. Questa idea della natura come qualcosa di plastico e manipolabile ha risonanza nel lavoro di molti dei tuoi contemporanei nel campo dell'architettura, in particolare in alcuni studi olandesi, come MVRDV. I paesaggi che dipingi sono spesso tetri e desolati, ma anche incredibilmente belli – pensi che l'artificiosità stia perdendo la sua stigmate culturale?
West 8, MVRDV, OMA e così via appartengono a una generazione che ha estrapolato il concetto di 'paesaggio artificiale'. Per la mia generazione questa idea esisteva già come data e non abbiamo dovuto combattere con essa; abbiamo capito che la distinzione tra naturale e artificiale è assolutamente chiara, e che questa ambiguità è la nostra condizione 'naturale'. Qui è dove ha inizio la mia fotografia: mi piace lavorare con questa ambiguità, invece di concentrarmi solo sull'artificiale. Per me la bellezza dell'Olanda, per esempio, è nel fatto che ci sembra sempre essere qualcosa che manca, con tutto il suo sforzo progettuale, sembra incompleto, è sempre in procinto di essere finito, ma non abbastanza per arrivarci. Mi piace quella sensazione e cerco di metterla di nuovo dentro le fotografie che faccio.

Le tue foto di Dubai accennano a un tema che negli ultimi anni ha rappresentato un punto critico nel dibattito etico all'interno della professione architettonica: la nascita di un nuovo sottoproletariato globale dei lavoratori migranti, senza il quale molte delle opere per le quali questo decennio sarà ricordato (per esempio Burj Khalifa, la torre alta 828 metri) non sarebbero state costruite. Questo tema è stato centrale o tangenziale ai tuoi interessi in Refuge?
È interessante notare – e me ne sono reso conto solo dopo aver effettuato la selezione delle immagini – che i lavoratori sono l'unica presenza umana in queste fotografie. Sono la forza lavoro che costruisce questa città. Sia Sunapur a Dubai che Manshiet Nasser al Cairo possono essere visti come 'città di servizi': aree in cui sono alloggiati i lavoratori a basso reddito, per lo più immigrati o minoranze, – gruppi di persone che svolgono importanti funzioni urbane come i lavori di costruzione a Dubai o la raccolta e il riciclaggio della spazzatura del Cairo. Ci sono andato soprattutto perché ho avuto la sensazione che questi luoghi fossero i più contemporanei tra gli spazi urbani che potessi videre in quelle città. Sunapur, il campo di lavoratori che si protende nel deserto di Dubai e che già ospita circa 150.000 persone, è uno dei più grandi quartieri della città. Non è nascosto, come alcuni pensano, è solo una delle tante nuove estensioni urbane nel deserto, vicino ad una comunità chiusa e benestante e di un sobborgo abitato dalla classe media chiamato International City. Questo, in sostanza, è come ho cercato di fotografare questi luoghi – come nuove estensioni alla città contemporanea.
Cooling plant, Dubai, 2009
Cooling plant, Dubai, 2009
Former gececondu hillside, Istanbul, 2009
Former gececondu hillside, Istanbul, 2009
ormer sugarcane field, Cairo, 2009
ormer sugarcane field, Cairo, 2009
okkatam ridge (garbage recycling city) Cairo, 2009
okkatam ridge (garbage recycling city) Cairo, 2009
Ringroad, Cairo, 2009
Ringroad, Cairo, 2009
Sand ridge, Amman, 2009
Sand ridge, Amman, 2009
Shopping mall parking lot, Dubai, 2009
Shopping mall parking lot, Dubai, 2009
Valley, Beirut, 2009
Valley, Beirut, 2009

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