Abitare modernamente a Tokyo è un lusso che pochi
possono permettersi: per una città che rimane una capitale
della ricerca architettonica internazionale sembrerebbe un
paradosso, ma solo in apparenza. Un'economia, una geografia,
un territorio su cui pesa una densità – di costruito e
di abitanti – impensabile anche per la più affollata metropoli
europea, fanno sì che affittare anche solo un monolocale
di 50/60 mq possa costare (in media) 4.000 dollari al mese:
nella graduatoria della rivista Forbes, uno standard secondo
solo a quello di Hong Kong. Naturalmente le quotazioni possono
salire molto di più per abitazioni di maggiore qualità,
nelle migliori aree residenziali: sarebbe quindi indelicato
chiedersi il costo delle townhouse che Kazuyo Sejima ha da
poco terminato di realizzare nella zona di Seijo, più o meno
a sud ovest del centro di Tokyo.
Certamente più importante, per comprendere meglio il
lavoro di questa poetessa dell'architettura, e soprattutto di
come riesca ad ottenere risultati sempre coerenti alla sua
visionaria leggerezza, è capire come si sia accostata qui al
disegno di edifici per abitazione che tenessero insieme l'idea
di comunità e quella di privacy, senso del luogo e astrazione
geometrica, semplicità democratica e eleganza 'cool'.
Tanto composta infatti sembra la risoluzione del progetto,
tanto ambizioso era l'obiettivo: ricreare un insediamento
urbano in miniatura che desse alle singole unità abitative
forma e spazio tali da farne
vere piccole ville, senza negare
ai loro abitanti la possibilità di
socializzazione, e soprattutto senza
rompere l'unità del complesso
d'abitazione. La base per questa
singolare rivisitazione dell'unité
d'habitation è la creazione di un
modulo spaziale, che assemblato
e moltiplicato in diverse direzioni
e sequenze può dare teoricamente
vita a un'intera città – come racconta bene l'immagine
del bianco modello realizzato a dimostrare la possibile
estensione ad libitum della matrice originaria. Non si deve
dimenticare che gli esordi di Sejima, ancora prima dell'incontro
con Nishizawa e la formazione di SANAA, sembrano
risentire lontanamente dell'influenza di certi gruppi radicali,
in particolare degli italiani Superstudio e Archizoom, delle
loro griglie concettuali degli anni Settanta, lungo le quali
nuove utopie urbane avrebbero potuto svilupparsi – anche
se non si sa bene con quali finalità e modi di abitare. Le
cose della vita, lo star system, la committenza, ma anche
la tenace volontà di Sejima nell'affermarsi come uno dei
migliori architetti tra i nostri due secoli – e non come una
disegnatrice di scenari, per quanto profetici come quelli delle
avanguardie radicali – l'hanno portata a una declinazione
più gentile di tanta lucidità.
Così qui a Seijo l'utopia concettuale si è trasformata
in vere, autentiche, piccole case con un senso di appartenenza,
e allo stesso tempo di confortevole intimità, creato
da specialissime nuance: dal delicato quasi rosa dei mattoni
che rivestono esternamente le strutture e che riflettono
come specchi opachi la luce dentro gli spazi delle abitazioni,
alle grandi aperture vetrate che lasciano agli abitanti
la visione delle altre case, ma non del loro interno, fino ai
piccoli giardini intersiziali che punteggiano come un ricamo
naturale la trama del complesso d'abitazione; un insieme
frattale, quasi una torre orizzontale, un unicum fatto di tante
diversità, come l'umanità e i suoi miliardi di esistenze.
Per ora molte case qui a Seijo sono ancora disabitate:
nell'attesa che altri bambini vengano a viverci e a giocare
con lui, il piccolo figlio della coppia ritratta da Iwan Baan
a conversare con gli amici sembra molto divertito di avere
a disposizione come playground tutti i giardini segreti di
'Seijoville'.
Kazuyo Sejima, Seijoville
Nelle Seijo TownHouse di Tokyo, Kazuyo Sejima riesce a sperimentare per un'utenza d'élite un singolare modello di "abitazione collettiva"
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- Stefano Casciani
- 19 giugno 2008
- Tokyo